L’altra via di Marco Polo – Parte 2: dal deserto di Gobi al Tibet

18 marzo 2020 - 3:33

Quattro nazioni toccate, 25.000 chilometri da percorrere e infiniti ambienti naturali da vivere. Russia, Mongolia, Cina, Tibet, Nepal. Tra taiga infinita e steppa sconfinata, laghi cristallini e fiumi possenti, deserti inospitali e montagne maestose, metropoli moderne e città antiche, monasteri grandiosi e templi misteriosi, sentieri leggendari e giungla mormorante.

Il Gobi che non t’immagini

Il Gobi, un deserto secondo solo al Sahara. Una distesa di dune di sabbia che cambiano forma spostate dai venti. Un panorama che si estende a perdita d’occhio, fino a farti credere che la terra sia tutta così, sotto un sole cocente. Ecco ciò che probabilmente si pensa di trovare, ecco quello che mi aspettavo io. Tutto sbagliato, o quasi.

Improvvisamente, montagne e valli ricoperte d’erba verde dove pascolano capre e pecore, sembrano materializzarsi dal nulla, trasportandoti in un altro mondo. La pioggia cade abbondante ma appena prima del tramonto qualche raggio buca le nuvole. Due arcobaleni concentrici di 180° riempiono il cielo.

In realtà il deserto che si ci aspetta, quello fatto di dune morbide ed eleganti, c’è, ma non è più di un fazzoletto di terra nell’immensità del Gobi, dove la sabbia sotto i piedi è fredda e dove le montagne fatte di quella stessa sabbia sembrano prendere fuoco sotto le ultime luci di un sole che scompare dietro all’orizzonte. Lo spettacolo è unico: una via lattea fluorescente e così tante stelle da farti capire come mai si dica che non si possono contare.

A cavallo nella steppa

Un sole caldo che fa sudare e attira sul proprio volto gli insetti che popolano la bassissima vegetazione. Un vento fresco che scompiglia i capelli e il suo fischio come unico rumore. Tutto intorno a me un infinito alternarsi di distese e alture verdi sotto un cielo che non si potrebbe immaginare più azzurro. Un cavallo. Tengo tirate con forza le briglie, lui freme, vuole correre. Lascio la presa e lui parte, si sente libero e va. Aspettava questo momento da ore. Anche io. Per un attimo mi sento un tutt’uno con la steppa, con il cielo, con il vento, con il sole, con il mio cavallo. E la sento. L’essenza stessa della Mongolia.

Ritorno a Pechino

Il cuore della Cina. Una città immensa, da cui ero letteralmente fuggito quattro anni fa, la mia prima volta nel paese di mezzo. Girare senza bisogno di una mappa, ripercorrere strade già fatte, non avere sorprese su cosa si potrà trovare sono tutte cose assolutamente nuove nelle settimane di viaggio e, per una volta, piacevoli.

In realtà, però, qualcosa è cambiato, qualcosa di sorprendente c’è. Quattro anni fa Pechino era una città che viveva nel futuro ma che doveva fare i conti con un passato ingombrante, creando un mix di sensazioni incongruenti, illogiche e incomplete. Ora il cerchio è molto più quadrato, eppure sono passati solo quattro anni. Un’eternità per una città che va così veloce dove ciò che vedi oggi fa già parte del passato appena arriva il domani. Come prima, Pechino, si percepisce, non sarebbe ciò che è senza il suo passato (più o meno) glorioso. Ma ora si sente definitivamente che essa non potrebbe esistere neanche senza il futuro (più o meno) grandioso che si è costruita ed in cui si è proiettata.

Un confine immaginario

In treno. Da Xian a Lhasa, dalla città che segnava la fine della Via della Seta e l’inizio della Cina imperiale alla capitale di quello che è stato un antico e grande regno. 36 ore su quella che dal Qinghai, “anticamera” del Tibet, diventa la ferrovia più alta del mondo. La lancetta dell’altimetro della carrozza si muove sensibilmente e inesorabilmente verso numeri sempre più alti. 1500, 1800, 2200, 2800, 3500 metri. La notte passa quasi insonne, inizia un altopiano, il paesaggio si fa sempre più brullo. Poi la lancetta ricomincia a salire, si avvistano i primi giganti dell’Himalaya, figure maestose e scure contornate da nubi imponenti.

Il treno sembra dover salire all’infinito. 4800, 5000, 5100 metri. Finalmente il passo che segna definitivamente l’ingresso in Tibet. Il confine tra due mondi della stessa grande nazione. Poi si scende, gradualmente, il cielo è meno cupo. Il sole si specchia sull’acqua di laghi cristallini, tra le grandi montagne dell’Himalaya.

La prima parte dell’itinerario: L’altra via di Marco Polo – Parte 1: da Mosca al deserto di Gobi

L’ultima tappa: L’altra via di Marco Polo – Parte 3: il Tibet

Testo e foto di Francesco Perini

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