Oggi, 22 aprile, Giornata Mondiale della Terra, si è svolta presso il Palazzo di Vetro di New York la cerimonia della firma ufficiale dell’accordo sul clima raggiunto nel corso della conferenza COP21 di Parigi.
Per la ratifica ufficiale dell’accordo sono intervenuti 165 capi di stato o di governo che, con questo atto, hanno certificato l’impegno ufficiale del loro Paese per il rispetto degli impegni che dovrebbero consentire di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale.
Il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha esortato i rappresentanti dei Paesi firmatari a far sì che l’accordo diventi operativo il più presto possibile.
Nel seguito potete leggere l’ampio reportage realizzato dalla nostra redazione in occasione della conferenza COP21 di Parigi.
Cominciamo con una brutta notizia per noi appassionati del camminare: le montagne nel testo dell’accordo sul clima uscito dalla COP21 non ci sono.
La battaglia della “lobby” delle terre alte, portata avanti dalla Mountain Partnership, è perduta. La petizione presentata ai rappresentanti dei governi riuniti a Parigi, nella quale si chiedeva di menzionare ufficialmente le montagne fra gli ecosistemi fragili, in virtù della loro elevata suscettibilità ai cambiamenti climatici e della loro importanza per il mantenimento di risorse vitali per tutta l’umanità, non è stata tenuta in considerazione.
Aldilà di questa piccola vicenda (che poi tanto piccola poi non è, se si tiene conto che circa il 12% della popolazione mondiale vive in montagna e che dalle montagne e dai loro ghiacciai arriva almeno il 50% delle riserve idriche mondiali…), è importante cercare di tracciare un primo bilancio di quello che è stato giustamente presentato come un appuntamento di importanza epocale se non addirittura come l’ultima opportunità per salvare il pianeta.
L’istanza dei popoli delle terre alte è solo una delle tante (sacrosante) aspettative disattese della COP21, ma questo è stato il prezzo che Laurent Fabius, il “grande timoniere” della Conferenza, ha chiesto a tutti di essere disposti a pagare per poter realizzare quel “magheggio” diplomatico che è l’accordo finale di Parigi:
“Ovviamente nessuno potrà avere il 100% di quello che vuole – aveva avvertito sin dall’inizio delle negoziazioni – Quando 196 parti si confrontano su una materia complessa, ciascuna chiede il 100% e molte possono ricevere lo zero per cento, per questo devono avere spirito di compromesso”.
Il frutto di questo sacrificio, ha detto Fabius in conclusione del summit, è “Un accordo giusto, duraturo, bilanciato”.
Lo ha detto con le lacrime agli occhi, cosa che ha scatenato la standing ovation dei delegati presenti alla conferenza e la commozione del mondo intero… ma che, forse, anche a qualcuno di voi ha fatto correre un brivido lungo la schiena, ripensando al pianto di un recente ministro della Repubblica Italiana mentre si accingeva a chiedere sacrifici, lacrime e sangue per l’adozione di misure che non hanno esattamente dato effetti “giusti, duraturi e bilanciati”…
Eppure bisogna ammetterlo: sotto l’aspetto diplomatico la COP21 è stata un vero capolavoro. Alla vigilia dell’evento ancora aleggiava lo spettro della COP15 di Copenaghen, quando lo scontro di interessi dei vari Paesi impedì di redigere un documento ufficiale che definisse accordi e obiettivi condivisi. Questa volta invece il documento c’è ed esprime la volontà comune di 196 nazioni su questioni vitali.
Innanzitutto viene fissato ufficialmente l’obiettivo del mantenimento dell’incremento della temperatura media globale entro i 2 gradi rispetto all’era preindustriale. Poteva andare anche meglio, visto che si era presa anche in considerazione la proposta di fissare la soglia a 1,5 gradi, avanzata dai Paesi più sensibili ai cambiamenti climatici e dalle Ong al fine di evitare eventi dagli esiti devastanti come quelli appena citati.
Il “magheggio” qui sta nel fatto che il documento ufficiale cita comunque questa soglia più restrittiva, indicandola come risultato auspicabile al quale le nazioni si sforzeranno di tendere.
È stato poi confermato l’impegno dei 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020 da mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo, riuscendo in questo modo a dare espressione al principio della “differenziation”, sostenuto proprio dai dalle nazioni emergenti, per le quali occorre affermare la maggiore responsabilità rispetto al riscaldamento globale da parte di quei Paesi che da più anni contribuiscono all’immissione di CO2 nell’atmosfera. Con questi contributi si stabilisce una sorta di “risarcimento” per quei Paesi che subiscono e subiranno i danni del riscaldamento globale, senza esserne la causa. Un colpo al cerchio, insomma, al quale va aggiunto anche il maggior tempo a disposizione dei Paesi emergenti per adeguarsi agli obiettivi di riduzione della CO2 immessa nell’atmosfera.
A questo fa ovviamente riscontro un colpetto alla botte dei Paesi sviluppati e delle multinazionali, felicissimi di non vedere nell’accordo alcun riferimento a responsabilità civili specifiche e risarcimenti dei danni climatici da parte di chi ha contribuito maggiormente a causarli.
Sembra cosa banale, ma su questo fronte si è combattuta una battaglia estremamente aspra, che è stata la causa del ritardo della chiusura dei lavori della conferenza, inizialmente prevista per venerdì 11 dicembre. Per arrivare a questo delicatissimo bilanciamento la diplomazia internazionale ha dovuto “dimenticarsi” nel documento finale la menzione dei diritti umani delle popolazioni colpite dagli effetti dei cambiamenti…
Per quanto in termini molto generici si è riusciti a mettere nell’accordo l’impegno dei vari paesi a raggiungere “nel più breve tempo possibile” (fra il 2020 e il 2030) il picco di emissioni di CO2, per poi avviare ad un “bilancio tra emissioni antropogeniche e rimozione di queste da parte dei cosiddetti sink biosferici (foreste, oceani, ecc) nella seconda metà del secolo”.
Anche in questo caso il prestigiatore merita un applauso: in sostanza l’accordo riesce ad affermare l’obiettivo di ridurre la CO2 nell’atmosfera facendo forza sul principio della neutralità climatica e non quello delle emissioni zero o “decarbonizzazione”, cioè alla riduzione dell’uso di combustibili fossili. È come dire: non conta quanto carbone e petrolio usiamo per produrre energia, l’importante è che si vada verso una parificazione fra la CO2 che produciamo e quella che le foreste e gli oceani possono immagazzinare. Uno slalom decisamente ardito fra le esigenze dell’ecosistema globale e gli interessi dei paesi produttori e dei grandi consumatori di combustibili fossili!
Almeno sulla carta la COP21 è arrivata dunque a conclusioni valide. Ma ora tocca passare dalle parole scritte alla realtà e non è detto che tutto debba filare per il verso giusto.
Innanzitutto c’è uno scoglio formale che deve ancora essere superato: i rappresentanti della Conferenza di Parigi hanno steso un accordo condiviso che ora sarà depositato presso le Nazioni Unite e, per entrare in vigore, dovrà essere ratificato ufficialmente da non meno di 55 Paesi i quali rappresentino nel complesso non meno del 55% delle emissioni globali di origine antropica. Nel caso del protocollo di Kyoto questa fase di ratifica richiese ben 8 anni!
A meno di terremoti politici inattesi questa volta i tempi dovrebbero essere ben più stretti, ma le motivazioni stesse di tale celerità potrebbero contenere il “baco” in grado di rodere le fondamenta dell’efficacia dell’accordo di Parigi.
Già perché il prezzo finale che la diplomazia ha voluto/dovuto pagare per giungere alla stesura del documento finale è stato sostanzialmente quello di definire accordi non vincolanti nulla e per nessuno!
È vero che si è stabilito il limite dei 2 gradi centigradi di incremento della temperatura, ma è anche vero che non ci si è dati alcuna indicazione rispetto ai provvedimenti da prendere per giungere a tale risultato. Tutto è affidato agli impegni che i 196 membri del Unfccc si sono singolarmente autoimposti già prima della COP21, ma il cui risultato aggregato, come sappiamo, non è per ora assolutamente sufficiente a mantenere la soglia del riscaldamento al di sotto dei 2 gradi.
L’accordo di Parigi prevede una revisione quinquennale di tali impegni a partire dal 2023, ma non si fa assolutamente menzione alle strategie con cui le nazioni potranno coordinarsi per definire gli indispensabili vincoli più restrittivi rispetto alle emissioni e, soprattutto, non si mettono in campo sanzioni che obblighino a rispettare gli impegni presi già da ora.
Tutto è lasciato alla “buona volontà” e alla lungimiranza dei governi, compreso il compito di certificare i dati scientifici relativi alle proprie emissioni…
Anche i famosi 100 miliardi di dollari per i Paesi in via di sviluppo hanno più o meno il valore contrattuale di una stretta di mano fra gentiluomini: da qui al 2020 le nazioni sviluppate promettono che daranno. Negli anni passarti più volte hanno disatteso la promessa, ma dopo Parigi siamo tutti più buoni. Superata quella data si farà un altro accordo nel 2025 (ovviamente molto più ambizioso!), ma chi vivrà vedrà…
Per quanto riguarda la riduzione della CO2 nell’atmosfera, visto che l’obiettivo dichiarato non è più quello della “decarbonizzazione” ma quello della neutralità climatica, dobbiamo sperare che la scienza e la tecnologia ci mettano rapidamente a disposizione gli strumenti per bruciare carbone facendo tanto arrosto con pochissimo fumo… Peccato però che nel frattempo i serbatoi di anidride carbonica del pianeta non andranno certo espandendosi, visto che la deforestazione non è di sicuro un problema che ci siamo lasciati alle spalle e che, in merito a ciò, l’accordo della COP21 non stabilisce alcun obiettivo vincolante.
Le parole scritte a Parigi sono importanti. 196 nazioni si sono confrontate senza mandarsi a quel paese. Vista l’aria che tira, questo è già un gran risultato… Ma ciascuna di quelle parole, sia quelle scritte che quelle non scritte, ha un prezzo che tutti noi dovremo pagare nei prossimi anni.
La vera battaglia per il pianeta comincia ora, e sarà una battaglia per fare sì che il prezzo di quell’accordo non sia la rinuncia all’obiettivo stesso che vogliamo ottenere: la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta Terra.
In questi giorni a Parigi si tiene la ventunesima Conferenza annuale delle Parti (COP21), l’organo della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations framework convention on climate change, Unfccc). Il summit ha l’obiettivo di portare avanti i negoziati internazionali per la riduzione delle emissioni di CO2 ed è un evento che non è esagerato definire cruciale per il futuro del pianeta.
I primi a sostenerlo apertamente sono gli stessi protagonisti, rappresentanti ai massimi livelli istituzionali dei 196 paesi firmatari della Convenzione, sottoscritta nel 1992, in occasione della Conferenza sul Clima di Rio.
Nel suo discorso inaugurale il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon ha definito la COP21 “un’occasione politica unica che potrebbe non tornare” e si è rivolto ai rappresentanti dei governi ricordando che il futuro del mondo è nelle loro mani e “non sono più ammesse indecisioni”.
Il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama, presente di persona alla conferenza, ha è stato ancora più incisivo, affermando che: “
Bisogna agire ora, mettendo da parte gli interessi di breve termine. Siamo l’ultima generazione a poter salvare il pianeta.
Sono dichiarazioni molto esplicite, che è raro sentire pronunciare in apertura di trattative delicatissime come quelle in corso, dove solitamente si tiene un profilo molto basso, se non altro per evitare figuracce nel caso in cui tutto si concluda ancora una volta in un nulla di fatto. Forse l’abbandono della tradizionale prudenza diplomatica è il segno più evidente del fatto che le lancette dell’orologio corrono verso il punto di non ritorno e che il tempo delle mezze misure e dei procrastinatori è ormai scaduto.
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C’è un elemento molto importante che potrebbe determinare l’esito della Conferenza di Parigi: la mancanza di qualsiasi alibi scientifico rispetto alla gravità della situazione e al rapporto di causa-effetto che la determina.
L’accordo che in questi giorni ci si impegna a trovare era già atteso nel 2009 con la COP15 di Copenaghen, che però ebbe un esito assolutamente deludente: dalla Conferenza non emerse alcun impegno vincolante e i 196 Paesi del COP si limitarono sostanzialmente a prendere atto dell’intesa “privata” fra Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Sudafrica (il “Copenaghen Accord”) con la quale questi si impegnavano genericamente al contenimento del riscaldamento globale. Ma la cosa più sconfortante fu che in nessuno dei documenti finali della Conferenza si fece riferimento all’impegno per la riduzione dei gas serra: in una prima bozza compariva un -80% entro il 2050, poi un -50%, infine nulla!
Tutto ciò a Parigi non dovrebbe più essere possibile. Certo, il condizionale è comunque d’obbligo, quanto meno per ragioni scaramantiche, ma la COP21 si apre con alle spalle il rapporto 2014 dell’IPCC (Intergovernmental Panel of Climate Change), organo delle Nazioni Unite che costituisce la principale autorità internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici.
La relazione ribadisce chiaramente il rapporto di causa-effetto fra il riscaldamento climatico e le emissioni di CO2, riaffermando la necessità di una riduzione del 40-70% dei gas serra entro il 2050. Questo è l’obiettivo minimo che dobbiamo porci per poter mantenere l’incremento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto alle medie dell’era preindustriale. Al di là di questo “punto di non ritorno” andremmo incontro a cambiamenti climatici letteralmente apocalittici, con conseguenze devastanti per la sopravvivenza di miliardi di esseri umani.
Al giorno d’oggi ben poche voci nella comunità scientifica internazionale si discostano da queste previsioni e, quando lo fanno, solitamente è per disegnare scenari ancora più cupi…
Insomma, qualsiasi cosa accada al COP21 nei prossimi giorni, di sicuro i potenti del mondo non potranno nascondersi dietro il paravento con cui l’allora presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso cercò di mascherare il fallimento di Copenaghen: “Un cattivo accordo è meglio di nessun accordo”. Quando si è prossimi al punto di non ritorno un cattivo accordo vale quanto nessun accordo, cioè: nulla!
Un’altro elemento di speranza rispetto agli esiti della COP21 è il ribaltamento della modalità di approccio al problema. Il primo, storico accordo sulla riduzione dei gas serra, si ottenne nel 1997 don il COP3 di Kyoto, dove si fissarono obiettivi vincolanti, ma oggi, purtroppo, non più sufficienti al contenimento del riscaldamento globale.
Dopo di allora si sono inanellati una serie di sostanziali fallimenti. L’ostacolo su cui sono inciampate le trattative internazionali sulla diminuzione delle emissioni serra è stata l’impossibilità di il raggiungere unanimità da parte dei paesi del COP rispetto alle percentuali e ai tempi di riduzione.
Per evitare di ricadere in questa spirale di veti e interessi contrapposti, nella Conferenza di Parigi si adotta una nuova strategia: sulla base degli impegni presi al COP19 di Varsavia, ciascun Paese interviene al nuovo summit presentando quelli che ritiene siano gli obiettivi da lui raggiungibili e che vuole imporsi come vincolanti (qui trovate un prospetto degli impegni che i diversi stati si sono attribuiti).
_ Il vantaggio di questo approccio è duplice.
In primo luogo ciascuno dei 196 paesi aderenti alla Convenzione è stato costretto, per giustificare le proprie previsioni e valutazioni tecnico-scientifiche, a mettere sul tavolo dati precisi e concreti in merito alle emissioni inquinanti da lui prodotte, favorendo in questo modo la condivisione di informazioni che, solitamente, i governi sono troppo entusiasti di divulgare… Il secondo, fondamentale, vantaggio è che, a fronte degli impegni autoimposti, l’obiettivo della COP21 dovrebbe divenire “semplicemente” quello di trovare una mediazione che faccia quadrare i conti, in modo che dalla somma degli sforzi di ciascuno emerga il fatidico risultato finale: aumento della temperatura globale minore di 2 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale.
_ C’è solo un piccolo problema: ora come ora i conti non tornano!
A ottobre di quest’anno l’Unfccc ha, infatti, presentato un rapporto sul risultato aggregato degli impegni presi da 146 Paesi (50 non hanno ad oggi ancora inviato la loro relazione), dal quale emerge chiaramente che, se pure le promesse verranno mantenute, entro la fine del secolo la temperatura media globale si alzerà di 2,7 gradi centigradi. Una cifra che si colloca ben al di sopra della soglia del disastro ambientale.
Stando alle promesse dei governi nel 2030 avremo, a livello globale, 55-60 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 equivalente all’anno, ma, per avere almeno il 50% di possibilità di contenere l’aumento delle temperature al di sotto dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale, le emissioni non dovrebbero superare le 40 miliardi di tonnellate.
La COP21 di Parigi deve dunque diventare la tappa essenziale di un processo che porti le varie nazioni a rivedere ed elevare, in tempi obbligatoriamente brevissimi, lo standard dei propri impegni per passare ad un modello di crescita a basso tenore di carbonio.
Sin dall’epoca della prima rivoluzione industriale i combustibili fossili, carbone e petrolio, principali responsabili del rilascio di CO2 nell’atmosfera, sono stati il “foraggio” con cui abbiamo nutrito le macchine, generando l’energia necessaria alla produzione, quindi allo sviluppo dell’economia e alla crescita del benessere.
Per i Paesi più sviluppati, che dispongono di un alto livello di benessere e di ricchezza, oggi il rapporto fra costi e benefici di questo modello di sviluppo è ormai palesemente in svantaggio e lo scenario di un futuro basato su risorse energetiche alternative è ormai definitivamente passato dalle utopie ambientaliste alle road map delle istituzioni e della politica (anche se le azioni concrete nella direzione di questo cambiamento restano per ora ben poca cosa).
Per i Paesi in via di sviluppo, invece, ricorrere ai combustibili fossili significa disporre di una risorsa poco costosa, perché non necessita di grandi investimenti in infrastrutture e impianti per essere sfruttata efficacemente. Per molte economie emergenti i combustibili fossili sono l’unica possibile via di accesso allo sviluppo, una via da seguire anche al costo di pagare un prezzo altissimo in termini di spreco delle risorse stesse e di danni all’ambiente. È la feroce logica della sopravvivenza: meglio morire asfissiati dalla CO2 fra 10 anni, che morire di fame domani…
Ecco perché tanti Paesi dell’Africa, ma anche due colossi che ancora sono ben lontani dal completare la loro crescita come India e Cina, recalcitrano di fronte alle proposte di limitazione dell’utilizzo dei combustibili più inquinanti, ma anche più a buon mercato, come il carbone, e accusano le nazioni occidentali di voler impedire loro l’accesso al diritto allo sviluppo, in nome della lotta a un problema di cui proprio i Paesi più sviluppati sono i principali responsabili.
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Questo è forse lo scoglio più pericoloso contro cui rischiano naufragare le speranze della COP21, anche se un segnale positivo è arrivato proprio dall’India che, nella seconda giornata del Summit, si è fatta promotrice del lancio dell’Alleanza per il solare, un accordo che coinvolge 121 nazioni dell’area geografica compresa fra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno (quella cioè dove più forte è l’irraggiamento solare), con l’obiettivo di sviluppare una tecnologia fotovoltaica più efficiente e meno costosa e di condivisione delle conoscenze in questo settore fra i paesi più ricchi e quelli più poveri. Nel comunicato con cui i 121 hanno annunciato l’Alleanza si leggono frasi decisamene incoraggianti:
Siamo al fianco dell’India in questa iniziativa in quanto riconosciamo che lo sviluppo sostenibile, l’accesso universale all’energia e la sicurezza energetica sono elementi cruciali per garantire un futuro al nostro pianeta
Solo il tempo potrà dimostrare se dietro a questa mossa c’è una vera volontà di puntare sulle energie alternative o se si tratta di un escamotage approntato per quietare l’opinione pubblica mondiale.
Di sicuro le “buone intenzioni” avranno qualche chance in più di trasformarsi in fatti concreti se anche i Paesi ricchi sapranno fare la loro parte, mantenendo finalmente la promessa di devolvere fondi pari a 100 miliardi di dollari l’anno, da qui al 2020, per le politiche di sviluppo sostenibile dei Paesi in via di sviluppo (da notare che il mancato rispetto di questo impegno fu una delle ragioni del fallimento della Conferenza di Copenaghen).
A margine di questa panoramica sulla COP21 ci sembra importante mettere in luce un argomento che ci tocca particolarmente come appassionati di trekking: il rapporto fra la Conferenza e lo sviluppo sostenibile delle aree montane.
Cominciamo da una pura coincidenza: il Summit di Parigi si chiude l’11 dicembre, data della Giornata internazionale delle Montagne, appuntamento annuale voluto dalle Nazioni Unite per ricordare la loro importanza per l’ecosistema globale e il benessere dell’intera umanità.
La Giornata Internazionale è un’eredità (purtroppo sostanzialmente l’unica tangibile a livello istituzionale) del 2002 Anno Internazionale delle Montagne, evento che avrebbe dovuto dare una scossa decisiva nella direzione dello sviluppo sostenibile delle terre alte, che, come definito nel Capitolo 13 dell’Agenda 21, stilata nel corso della Conferenza di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo, costituiscono un delicatissimo e insostituibile scrigno di biodiversità, nonché serbatoio del 50% delle riserve idriche del pianeta… tutte cose messe a serissimo rischio dai cambiamenti climatici.
Come già accennato delle buone intenzioni del 2002AIM poco o niente è rimasto, a parte forse la Mountain Partnership, realtà alla quale aderiscono 56 Paesi, 14 organizzazioni intergovernative, 189 fra associazioni e ONG, e che in questi anni è divenuta quantomeno un attento osservatorio e un’importante fonte di informazioni.
Alla vigilia della COP21 proprio la Mountain Partnership ha lanciato una petizione che vogliamo segnalare e sottoscrivere, affinché di montagne si parli anche nella Conferenza di Parigi (auspicio già effettivo visto che nell’ambito del Summit si terranno alcuni eventi coordinati proprio dal dalla Mountain Partnership) e, soprattutto affinché nei documenti finali della Conferenza vengano inseriti riferimenti chiari a obiettivi relativi allo sviluppo sostenibile e alla gestione dei cambiamenti climatici nelle terre alte.