La domanda è legittima vista la campagna internazionale contro i PFC che sta portando avanti Greenpeace, organizzazione globale, indipendente e non violenta, che tra i suoi obiettivi ha anche il raggiungimento di un futuro libero da sostanze tossiche e inquinanti.
All’orizzonte s’intravede comunque una maggiore consapevolezza e sensibilità al problema anche da parte delle aziende che realizzano abbigliamento e attrezzature per l’outdoor, marchi che puntano sempre alle migliori performance dei loro prodotti per i consumatori, ma al tempo stesso s’impegnano a rispondere concretamente all’idea di sostenibilità e rispetto dell’ambiente e della salute dell’uomo.
Iniziamo a rimarcare il punto più importante della questione: numerosi articoli outdoor, come scarpe, pantaloni e giacche, ma anche zaini, sacchi a pelo e tende, sono pieni di “veleni” perché realizzati e trattati con sostanze chimiche pericolose, come i perfluorocarburi e polifluorurati, dichiarati tossici e cancerogeni, e presto banditi dalle proprie produzioni dai maggiori brand di abbigliamento al mondo.
Numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato che queste sostanze possono causare seri danni al sistema riproduttivo, ormonale e immunitario, e favorire la crescita di cellule tumorali.
A quale prezzo compriamo pertanto una giacca dalle alte prestazioni, efficace nel respingere l’acqua, la sporcizia e le sostanze grasse? Un prezzo ben superiore a quello valutabile in soli euro per il suo acquisto!
Le sostanze applicate sulla superficie delle membrane non comportano rischi di salute diretti per le persone che indossano gli indumenti, ad esporsi sono soprattutto i lavoratori impiegati durante il processo di produzione nelle industrie dei PFC e gli operai delle fabbriche tessili, e l’ambiente durante il lavaggio e smaltimento del prodotto finito non biodegradabile (seppure la casistica sia ancora bassa, sono stati notati incrementi per le morti dovute a tumore alla vescica tra i lavoratori impiegati per almeno un anno negli impianti di produzione del POSF, o per tumore epatico tra i lavoratori esposti al PFOS, e per tumore alla prostata in lavoratori esposti al PFOA).
Il PFC quindi è una bomba a orologeria pronta a deflagrare una volta che si è accumulata nell’ambiente e si è fatta strada nel corpo umano attraverso la catena alimentare. Sia il PFOS che il PFOA sono in grado di bioaccumularsi negli organismi viventi , ne sono state trovate tracce persino nelle aree più remote del pianeta, in animali come delfini e orsi polari.
Un’elevata esposizione dell’uomo a questi prodotti può avere conseguenze dannose per la salute soprattutto a carico del fegato, della tiroide e della fertilità. Il tutto riconducibile a quei prodotti outdoor che ci consentono di fare il pieno di sport e avventura, o semplice svago all’aperto, ma che possono nuocere alla nostra salute e all’ambiente dove ci muoviamo. Stiamo parlando di aziende che dicono di amare e rispettare la natura!
Una giacca termica impermeabile che tiene caldo e asciutto il corpo può apparire estremamente semplice, in verità nasconde sostanze chimiche sofisticate.
I PFC per l’ottenimento di membrane impermeabili ad alte prestazioni, lo abbiamo detto, sono sostanze molto pericolose per l’ambiente e per gli organismi viventi, infatti si diffondono nell’atmosfera e nell’acqua, la loro persistenza ne rende difficile la degradazione da parte dei processi naturali, consentendone la diffusione su tutto il globo con una permanenza di diverse centinaia di anni!
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A conferma di questo, nel recente rapporto “Impronte nella Neve”, pubblicato nel settembre 2015 da Greenpeace, è stata dimostrata la presenza di composti chimici poli- e per-fluorurati (PFC) in campioni di acqua e neve prelevati in aree montane remote di tre continenti (prelievi fatti tra maggio e giugno in Italia, Svizzera, Slovacchia, Patagonia cilena, Russia, Turchia, Cina e nei paesi scandinavi).
La percentuale di tossicità più alta è stata riscontrata proprio a casa nostra, nei laghi alpini e soprattutto nelle acque del lago di Pilato, in Umbria, nel massiccio appenninico dei Monti Sibillini. Altre località dove è stata riscontrata una situazione particolarmente critica sono i territori negli Alti Tatra, in Slovacchia e sulle Alpi Svizzere
Il settore dell’abbigliamento per le attività outdoor è stato rivoluzionato negli anni ‘20 del Novecento con l’avvento dei polimeri sintetici, che consentirono di ottenere rivestimenti plastici microporosi capaci di garantire impermeabilità e al tempo stesso traspirazione. Oggi, l’impiego di sostanze sempre più ecologiche e sostenibili è il risultato di innovazione, ricerca scientifica e progressi dell’industria chimica. La finalità è quella di produrre capi di abbigliamento e attrezzature idrorepellenti e antimacchia senza far ricorso a composti pericolosi. Il percorso è lungo, ma l’auspicio è quello di arrivare all’ambizioso traguardo di “scarichi-zero” entro il 2020, con la completa eliminazione in tutte le filiere produttive di tutti i composti fluorurati, sia a catena lunga che a catena corta, usati nelle membrane, nei trattamenti idrorepellenti durevoli (DWR) e nelle finiture esterne dei più comuni capi di abbigliamento.
La richiesta ai marchi leader dell’outdoor di ridurre drasticamente i PFC dalle loro produzioni industriali è supportata anche dalla comunità scientifica internazionale. Nella primavera del 2015 più di 200 scienziati provenienti da 38 paesi hanno firmato la “Dichiarazione di Madrid” che chiede l’eliminazione dei PFC dalla produzione di tutti i beni di consumo, inclusi tutti i prodotti tessili, in accordo con il principio di precauzione.
Il primo obiettivo è stato raggiunto negli ultimi anni, ossia l’abbandono della precedente generazione di PFC definiti C8, per passare ai PFC definiti C6, meno tossici rispetto ai fluorocarburi a catena lunga che contenevano un contaminante molto pericoloso chiamato PFOA.
Seppure i rappresentanti del settore industriale sostengono che i PFAS a catena corta sono sicuri e possono offrire importanti vantaggi per la collettività, i luminari che hanno firmato la “Dichiarazione di Madrid” sostengono che le alternative a “catena corta” hanno minori probabilità di accumularsi negli animali e nell’uomo, ma si concentrano comunque nelle piante; questo significa che i prodotti ortofrutticoli contaminati da un’elevata concentrazione di composti PFAS a catena corta, diventano pericolosi per le persone che li consumano regolarmente. Inoltre, a preoccupare i ricercatori è soprattutto la longevità dei composti a catena corta.
I fluorurati “non andranno mai via” e potranno degradarsi solo dopo lunghi periodi, “tempi geologici”, aggiunge Arlene Blum direttore del Green Science Policy Institute di Berkeley, in California e autore principale della Dichiarazione di Madrid.
Comunque sia il passaggio da PFC definiti C8 a PFC definiti C6 è stata la prima tappa di un lungo cammino verso lo sviluppo di composti alternativi non fluorurati. L’ottenimento di questo primo risultato è la conseguenza di un accordo del 2006 tra l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (in acronimo EPA o USEPA, un’agenzia del governo federale degli Stati Uniti d’America) e otto dei maggiori produttori a livello mondiale di PFC, in cui hanno accettato di eliminare gradualmente la produzione PFOA o PFOS e creare sostituti come il C6.
Questo passaggio da fluorocarburi a catena lunga a fluorocarburi a catena corta (vi ricordiamo che il bioaccumulo tende ad aumentare con la lunghezza della catena degli atomi di carbonio), rappresenta solamente una tappa intermedia nella transizione che le aziende stanno operando per abbandonare il PFC, e un passo in avanti nell’ottica dell’utilizzo di sostanze chimiche responsabili.
Diciamola tutta, i trattamenti C6 DWR hanno ancora un alto grado di eco-tossicità, seppure con una scala enormemente inferiore rispetto ai loro predecessori C8.
Il PFC-Free comunque non è un miraggio: già nel 2013 vennero presentati alla Fiera europea dell’outdoor di Friedrichshafen (Germania) dei prodotti impermeabili e traspiranti trattati con emulsioni acquose di poliuretano esente da PFC e solventi.
Le caratteristiche tecniche sono analoghe a quelle del trattamento DWR a catena corta, tranne il raggiungimento degli stessi livelli di resistenza allo sporco.
Ma la ricerca va avanti, l’obiettivo finale è quello di ridurre costantemente l’impatto ambientale in tutto il ciclo di vita del prodotto completo e alcune aziende meno conosciute hanno già delle collezioni di abbigliamento idrorepellente completamente privo di sostanze tossiche. Sono stati introdotti numerosi processi a base di cere, paraffine, dendrimeri e siliconi.
Alternative valide alle membrane impermeabili contenenti PFC sono ad esempio Sympatex, Paltex oppure Toray, che garantiscono buone prestazioni nel campo della traspirabilità, idrorepellenza, resistenza allo sporco e al vento, nonché in termini di durabilità.
Ci sono marchi autorevoli, lungimiranti e innovativi, all’avanguardia nell’ambito del rispetto dell’ambiente e della salute, nominiamo l’azienda svedese Fjällräven (il PFOA è già sottoposta a severe limitazioni in Norvegia), Radys, Rotauf, Pyua e la Páramo, che pochi giorni fa, alla Fiera Internazionale ISPO di Monaco (principale appuntamento del settore outdoor), ha annunciato la decisione di eliminare tutte le sostanze chimiche pericolose dai propri prodotti.
Anche Greepeace ha testato questi prodotti, usando abbigliamento e attrezzature PFC-free nelle spedizioni condotte per eseguire i prelievi di acqua e neve, anche a quota 5.000 sulle montagne di Haba, in Cina.
Lo stesso alpinista David Bacci ha recentemente scalato in Patagonia il Cerro Torre (3.102 m) e il Fitz Roy (3.400 m), due delle cime più impegnative al mondo, indossando giacche, pantaloni e indumenti trattati con prodotti privi di PFC, ma con caratteristiche altamente performanti per un’impresa di tale portata alpinistica.
Non ci resta che attendere il 2020 per sapere se le aziende avranno rispettato il loro impegno di produrre capi assolutamente privi di fluorurati. La ricerca va avanti, l’obiettivo finale è quello di ridurre costantemente l’impatto ambientale in tutto il ciclo di vita del prodotto completo.
La chimica svolge un ruolo fondamentale nella produzione di capi di abbigliamento tecnico che presentino vantaggi tecnici specifici per proteggere le persone dagli eventi atmosferici (resistenza all’acqua, traspirazione, durata e calore).
Quindi, i PFC sono stati largamente impiegati in virtù delle loro peculiari caratteristiche chimico-fisiche; sono molecole in cui i legami carbonio-idrogeno sono sostituiti da legami carbonio-fluoro e le lunghe catene carboniose terminano con un gruppo polare.
Questa struttura chimica conferisce ai PFC una particolare resistenza termica, inerzia chimica, un’eccezionale idrofobicità e lipofobicità, caratteristiche queste ultime che hanno reso estremamente differenziato l’impiego dei PFC sia in ambito industriale che in quello domestico (polimeri plastici, carta, fibre tessili e pellame, schiume antincendio, cosmetici, casalinghi, etc.).
In totale, si contano 23 classi chimiche di PFC cui appartengono l’acido perfluorottanoico (PFOA) e il più noto perfluorottano sulfonato (PFOS), il cui uso è stato limitato ai sensi della Convenzione di Stoccolma, un trattato globale redatto per proteggere la salute umana e l’ambiente (per taluni usi, inoltre, il PFOS è vietato anche all’interno dell’Europa e in Canada).
PFOA e PFOS, in virtù della loro stabilità termica e chimica risultano resistenti nei confronti delle degradazioni possibili in natura (fotolitica, idrolitica, biotica aerobica o anaerobica).
Oggi, queste molecole sono note non per i loro impieghi ma per la contaminazione ambientale che hanno causato; PFC in generale, e PFOS e PFOA in particolare, dal punto di vista biologico possono incrementare la permeabilità cellulare nei confronti di altri composti velenosi (ad esempio le diossine), potenziandone l’azione tossica.
Inoltre, l’interruzione della comunicazione cellulare, di per sé fondamentale per la crescita della cellula, può tradursi nello sviluppo di tumori, specie in caso di esposizione cronica. Alcuni alimenti, in particolare i prodotti ittici, sembrano essere un’importante fonte di esposizione agli agenti contaminanti sopra citati.
Tuttavia per quanto riguarda il PFOA, anche altre fonti non alimentari contribuiscono all’esposizione totale, quali l’inquinamento degli ambienti chiusi attraverso la polvere e l’aria contaminate dai prodotti trattati con composti perfluorati (PFC).
Dal 2011 Greenpeace promuove la campagna internazionale “Detox” per chiedere a multinazionali e marchi globali dell’abbigliamento e del tessile di eliminare le sostanze chimiche pericolose da prodotti e filiere.