Trieste, refoli di bora

18 marzo 2020 - 10:19

La Bora, deriva da due correnti provenienti l’una dalle coste della Dalmazia, l’altra dall’altopiano carsico; queste, obbligate come sono dall’orografia del comprensorio, si incanalano giungendo su Trieste secondo l’unica direzione possibile est-nord-est.

Si tratta di masse d’aria di tipo continentale dense e secche che calando verso il mare aumentano la loro velocità e assumono quel regime turbolento che è alla base delle forti variazioni di intensità, i refoli.

Parallelamente agli studi scientifici, esiste poi tutta una fenomenologia, ben radicata nell’immaginario tradizionale dei triestini che permette loro di distinguere con fermezza la Bora che si presenta prevalentemente da ottobre a marzo e ripulisce l’aere, dal Borin che rinfresca le primavere e le estati triestine, dalla Bora nera che porta pioggia e neve.

La stessa esperienza che, in caso di Bora, insegna ad uscire di casa con largo anticipo rispetto agli impegni, perchè anche una breve passeggiata può diventare un’impresa ardua. Lo sanno bene gli abitanti di queste parti, che con questo vento convivono e al quale, però, non vorrebbero rinunciare.

Giocare a nascondino con il vento

Difficile stabilire le origini di un così forte legame fra la Bora e i triestini: forse la base di tutto potrebbe risiedere nella genesi di questo vento, così legato ai luoghi che furono della storia per molti giuliani: le coste istriane e dalmate o quel “sapore” particolare di vento continentale che sembra accentuare il carattere di Trieste città mitteleuropea.

Fatto sta che nonostante i disagi sarà difficile trovare un triestino che non ami, o perlomeno conviva serenamente con l’invadente presenza di questo vento. Se chiedete in giro vi diranno che la bora è parte della città, forse per come s’insinua nelle vie, forse vi diranno che la bora ci vuole perchè spazza via il caligo, ovvero l’odierno smog che altrimenti ben si rispecchierebbe nell’appellativo mutuato dal denso fumo dei focolari domestici.

È un rapporto che inizia “co se xe putei”, quando si corre affrontando la bora con la bocca aperta e il fiato mozzato dal vento che entra direttamente nell’anima. Un rapporto di ammirazione e rispetto per quella forza della natura che dal molo audace si vede rivaleggiare con le onde del mare in un unico fragoroso tumulto. Con le onde che battono il molo e il vento a ghiacciarle fino a trasformare la bitta in una scultura e la banchina in uno spesso strato cangiante che riflette nell’aria tersa di una mattina invernale il mare turchese.

Questa è Trieste con la sua Bora. Dalla Val Rosandra sul Carso al piazzale di San Giusto e da li a picco giù verso le rive, in una geografia urbana che annovera toponimi quali via della Bora o via Mulino a Vento e dove ogni angolo e ogni refolo ricompaiono leggendo Svevo o Saba, Stuparich o Slataper. Arriva all’improvviso la Bora, senza preavviso si precipita sulla città con fragore.

S’insinua fra le strade e fluendo veloce riesce a scombinare l’equilibrio dei passanti, scuote insegne e lampioni, persino i piccioni si dice perdano l’equilibrio. È un vento intermittente e dispettoso, contro il quale si procede curvi, a fatica, salvo poi ritrovarsi un istante dopo lunghi distesi a terra, perchè quel muro d’aria che si stava spingendo è improvvisamente cessato.

Trieste con la Bora, per chi ha vissuto certe situazioni, non è una città come le altre, muoversi a piedi è un giocare a nascondino con il vento, cercare le vie più riparate, affacciarsi agli angoli delle strade con circospezione, perchè la Bora è li, in agguato dietro l’angolo, pronta a soprenderti e ribaltarti togliendoti letteralmente il terreno da sotto i piedi, o perlomeno il cappello dalla testa.

I “veci” han visto ben altre cose…

I refoli sono ingannatori, si prendono gioco delle persone e anche se negli ultimi anni pare che il fenomeno sia diminuito d’intensità, non è raro assistere a scenette curiose, con gruppi di uomini e donne che procedono compatti tenendosi in equilibrio gli uni con gli altri, o più sfortunati passanti solitari che si esibiscono in bizzarre acrobazie cercando di non cadere.

Situazioni che sono parte di questa città, una sorta di tradizione che periodicamente si rinnova oggi in sporadiche giornate di bora con punte di oltre 130 km/h, ma che fino agli anni Settanta era una consuetudine tale da indurre il Comune a mantenere in alcune zone della città i famigerati paletti con “le corde”.

Posti lungo i marciapiedi in zone particolarmente a rischio, costituivano un rudimentale stratagemma che permetteva ai pedoni sorpresi dai refoli di aggrapparsi a qualcosa, evitando così di cadere, ma anche in casi eccezionali, di essere letteralmente trascinati via.

Come tutte le tradizioni, anche quella della Bora rivive nelle gesta epiche dei veci che, con quel fare di “chi ha visto ben altre cose”, ricordano per l’appunto come sufiava nel ‘29, quando ribaltò un tram, o nel ‘50 e qualcosa, quando fece crollare la ciminiera della Dreher.

Altri tempi, altra Bora, ma stesse situazioni di oggi, quelle che, a partire dagli anni venti, fecero la fortuna di alcune serie di cartoline illustrate, ispirate proprio agli avvenimenti più curiosi legati a questo strano fenomeno di costume. Cartoline perlopiù illustrate a mano che riportavano i luoghi della Bora, scene di vita quotidiana colta nelle più divertenti situazioni, sotto l’immancabile cielo triestino costellato di “oggetti volanti” portati via dal vento in ogni parte della città e destinati ad un “precipitoso” atterraggio nei dintorni di piazza Unità d’Italia.

Il magazzino dei venti

Di oggetti e idee in movimento vive da qualche tempo il museo della bora, un progetto innovativo che a partire dalla collezione di immagini e pubblicazioni d’epoca per giungere ai progetti riesce al tempo stesso a mantenere quel gusto un po’ nostalgico, quello dei triestini saldamente legati alle cose di casa, anche se si tratta di qualcosa fuggevole come un refolo.

Nato come parte integrante dell’ omonima Associazione Culturale, il Museo, o meglio il “Magazzino dei venti” come si chiama, quasi a voler indicare un qualcosa che colleziona ciò che il vento ha lasciato sul territorio, non è semplicemente uno spazio espositivo, ma un nucleo in grado di generare dinamiche di scambio culturale, ricollegare pensieri, come nel caso del progetto centoventi.

Un progetto che, avvalendosi dei numerosi aspetti culturali scientifici e immagignifici collegati a questo fenomeno, si propone di creare un filo fra “luoghi di vento”, un modo per esportare una visione di Trieste e metterla a confronto con altre esperienze simili nel mondo, sull’onda della poesie e delle emozioni che solo un aspetto così fuggevole e istrionico della natura può suggerire.

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