Sono partito all’alba del 25 Luglio, domenica. Il sole non era ancora sorto a Reggio Emilia, l’ho colto mentre illuminava con la sua radente luce padana la maestà di Fogliano, che una volta dovevano essere due visto che il luogo si chiama appunto Due Maestà, appena fuori città. L’aria fresca, quasi fredda, portava dai campi odore di letame e liquami che riempie le narici dopo la concimatura. Il viaggio sarebbe durato tre o quattro giorni, da Reggio Emilia alla volta di Massa percorrendo l’antica Via Vandelli, forse l’unica strada abbandonata subito dopo essere stata interamente costruita, intorno alla metà del ‘700, senza neanche l’onore del viaggio inaugurale.
La strada collegava Modena a Massa, perciò passando per Sassuolo è comoda da raggiungere in bicicletta anche da Reggio Emilia. Ho pedalato fino alla città del sassolino lungo la provinciale nr 467, sulla quale si delineano le aziende delle ceramiche e fino a qualche anno fa una delle zone più contaminate d’Italia per via delle polveri, dei metalli e del traffico pesante.
Non so oggi se la crisi, la presa di coscienza ambientale, la tecnologia abbiano migliorato la situazione, ma era domenica: niente traffico, niente fabbriche aperte, forse niente inquinamento.
A Sassuolo, la Via Vandelli, oggi Via Muraglie e poi Via Superchia, corre parallela alla provinciale che conduce a Prignano seguendo il Secchia, finché se ne distacca per seguire un altro percorso, più distante dal fiume, probabilmente per evitare le piene che in passato non erano controllate da argini di cemento e golene artificiali. Incontro un signore in bicicletta che nel cestino ha il suo cagnolino. Per essere certo di non aver sbagliato strada lo fermo con un cenno della mano. Mi vede all’ultimo momento, inchioda la bici e il suo cagnolino viene sbalzato dal cestino, ma è legato con il collare e resta penzolante sul manubrio.
Non è morto, per fortuna. Iniziano le prime salite, nelle colline coltivate a foraggio per la produzione del parmigiano-reggiano, che, a dispetto del nome, copre un’area che va dalla destra del Po alla sinistra del Reno, da Parma a Bologna. La pedalata lunga da pianura lascia il posto a quella agile da salita. Inizio lentamente ma costantemente ad innalzarmi dai 58 metri s.l.m. di Reggio fino ai milleseicento del Passo della Tambura, sulle Apuane, per un dislivello complessivo di circa 11.500 metri tra salite e discese, passando dal Passo delle Radici. Ma la strada è lunga e spesso mi perdo seguendo tracce di una via che non c’è più. A Pavullo nel Frignano dovrei fermarmi per la prima tappa ma desisto: troppo caos, i turisti della domenica che si recano sull’Abetone formano code che riempiono l’aria di smog. Vado oltre. Proseguo per il Castello di Montecuccolo, lungo una stradina secondaria e molto erta. Quando arrivo a destinazione ho le gambe dolenti. Il Castello pare risalga al Mille a.C. e con il suo piccolo borgo mi accoglie per una sosta ristoratrice. La vista sul Cimone mi accompagnerà fino a poco prima dell’Alpe di S. Pellegrino, lasciando poi spazio alle Apuane. Ad un signore del luogo che mi dice di avere la moglie reggiana – il mondo è piccolo – chiedo come individuare la Via Vandelli.
Mi dà qualche dritta ma poi sornione mi dice che tanto mi perderò, quindi mi conviene seguire la Giardini, ovvero la Statale 12 dell’Abetone e del Brennero. Non seguo il suo consiglio.Mi butto a capofitto lungo una specie di mulattiera e, quando sono in fondo, mi perdo.
Se ad un bivio segue un trivio e non hai segnali, difficilmente te la cavi. Io non amo il navigatore satellitare che ti ordina con assoluta precisione dove cercare un punto, preferisco le mappe perché puoi guardarti intorno e decidere tu. Risalgo al Castello e il signore di prima mi guarda e mi dice “A t’liva det me”, e va via con una vecchia fumosa Spider Alfa Romeo. Seguo la Giardini fino al bivio per Monzone. Non posso escludere il Ponte del Diavolo dal mio tragitto. A Monzone, comincio a sentire la stanchezza e mi fermo a bere un bicchiere di vino fresco in un bar, per ricevere un po’ di brio. Chiedo se la strada per il ponte è segnata, mi dicono di sì. Infatti, dopo una dura lotta con una strada di sabbia in continua salita – forse un residuo di un’antica spiaggia padana – mi perdo in un castagneto. Il segnale c’era ma non era quello giusto. Torno indietro.
Non vedo nessun altro segnale oltre quello sbagliato. Diavolo, dov’è il ponte? A volte, quando sono in fuoristrada, maledico coloro che arrivano a razzo con i quad e ti costringono a farti in là, ma stavolta sono felice di vederne uno. È un toscano che viene in vacanza da queste parti e mi racconta di seguire sempre la strada di sabbia. Lo faccio. Continuo a salire. Finalmente, circondato da umani in assetto da picnic arrivo al Ponte del Diavolo. Perché sia stato intestato al malefico personaggio non so, ma in effetti stupisce questo gigantesco arco di roccia a forma di ponte senz’acqua. Mi consola sapere che da qui in poi arriverò a Lama Mocogno senza grossi sforzi.
A Lama trovo ristoro all’albergo Cimone; gestione familiare, semplice e accogliente. Studio le carte, ma preferisco chiedere e mi reco all’ufficio del turismo. Forse non si aspettavano la domanda, così li colgo impreparati: non hanno idea da dove inizi la Vandelli. Esco sconsolato e mi reco in piazza. Ci sono dei ragazzi, alcuni in mountain bike. Chiedo a loro. Dopo una discreta discussione mi danno il loro parere: se vuoi stare tranquillo, ti conviene andare a La Santona. La Santona non è una signora con poteri sovrannaturali, ma una località non molto distante da Lama che alla mattina, poco dopo l’alba, con temperature autunnali e gambe dure e fredde, cerco di raggiungere seguendo la Giardini, mentre i boschi e il Cimone seguono con attenzione le mie fatiche.
Comincio a credere che la Vandelli sia solo un nome ma, poco dopo, debbo ricredermi: a La Santona un cartello stradale indica inequivocabilmente “Via Vandelli”, quella vera con l’antico e originale lastricato di pietra che fu posato per circa 150 chilometri di percorso originario, quasi 4.100 pertiche modenesi, progettata dall’abate ingegnere Domenico Vandelli su commissione del Duca Francesco III d’Este. Il lastricato dura poco però, per lasciare posto ad un sentiero nella faggeta che poco ha a che fare con una strada. Ora inizio a capire perché quella via fu abbandonata: alcuni tratti sono così in pendenza che oggi occorrerebbe un fuoristrada per superarli.
Mi sono chiesto come avrebbe potuto percorrerli un carro trainato da buoi. Fino al Passo delle Cento Croci, la strada – trasformatasi da sentiero in una carrareccia bianca – è tranquilla e segnata. Al Passo i segnavia terminano, forse perché si entra nel territorio di un diverso comune. La piccolissima chiesuola dalla lapide con le cento croci incise, fornisce un inaspettato e gradevole calore all’interno, mente fuori un po’ di vento accarezza il sudore raffreddando la pelle. Proseguo, senza essere sicuro che la direzione sia quella giusta, verso le montagne. Guardo le valli che circondano il Cimone e l’idea di dover arrivare in fondo per poi risalire verso le cime lontane dell’Appennino mi strugge. Inaspettatamente, mentre vado sempre più dabbasso, arrivo ad una capanna celtica, una piccola costruzione con il tetto che ricorda una pagoda giapponese e che invece è celtica; penso che la Lega potrebbe apprezzarne la fattura. Proprio lì, riprendo il segnale. Da questo momento in poi, la Via Vandelli – sostituita da una carrareccia che, a dispetto del nome, sempre meno si presta ad essere percorsa da carri – è un susseguirsi di boschi, siepi, terre incolte, tentativi inutili di ripristino del lastricato originario, segni profondi di acqua che ne ha scavato il fondo fino a quasi farla scomparire, e infine, dopo un infinito saliscendi, rotto spesso da tratti di strada impraticabili, il suo sfociare sulla strada asfaltata che conduce al Passo della Radici, tra Modena e Reggio Emilia, dove arrivo a quota 1549, quasi senza forze e dove, mentre mi ristoro ad una fontanella di acqua che sa di neve, incontro un pastore che mi racconta parte della sua vita in dialetto.
Storie di donne, di guai scampati, di santi protettori. La piccola guida che avevo con me diceva che dal Passo delle Radici, dove gli impianti di risalita fermi danno quel senso di stupore che dà un giostra inanimata, “si va giù all’Alpe di S. Pellegrino”. Ebbene per un chilometro non si va affatto “giù”, ma si sale senza tregua, seguendo nove stazioni della Passione di Cristo. Alla decima stazione, dopo aver circumnavigato il Cimone in quasi sette ore di pedalata continua, inizia la discesa fino alla teca dei santi Pellegrino e Bianco.
Là ho lasciato anch’io, laico e poco praticante, un bigliettino pieno di speranza. Stanchezza, o forza del Sacro. Il pastore, che nel frattempo era arrivato dalle Radici, mi accoglie al bar con un “ciao” in italiano. Mangio una fetta di crostata e gli chiedo dove attaccare la Vandelli. “Non ti conviene – mi dice in toscano – segui l’asfalto fino a Castelnuovo Garfagnana perché se vai sulla Vandelli e ti perdi dopo non sai dove andare”. Ma come, penso, quelli che su internet dicono di averla percorsa non hanno avuto alcun problema, mentre io mi sono perso più volte o potrei perdermi ogni volta? Comincio ad avere dei dubbi sulle mie capacità di orientamento, eppure le genti dei luoghi che ho consultato mi hanno tutte detto le stesse cose: la Vandelli non c’è più, non è segnata, è facile perdersi. Ma questa volta seguo il consiglio del pastore e seguo l’asfalto in una discesa che dai 1500 metri s.l.m. di S. Pellegrino porta ai 300 di Castelnuovo Garfagnana, per poi risalire fino ad arrivare a Vagli di Sotto, là dove c’è un lago che ogni dieci anni viene svuotato per riportare alla luce un paese sommerso, per la gioia dei cacciatori di ricordi a lunga scadenza. Il giorno successivo avrei iniziato l’ascesa delle Apuane. L’albergo Le Alpi è vuoto. Ci sono solo io. Parlo con il gestore e gli racconto le mie gesta. Credo di essere l’unico ad aver affrontato questo lungo e faticoso cammino per intero, ma mi smentisce subito. “No, ogni anno passano di qua venti, venticinque ciclisti, mai da soli però. Lei è il primo che arriva da solo.”.
Per consolarmi, penso alla Rampilonga, una competizione per mountain bike che ogni anno raccoglie cinquemila ciclisti, e mi sento un pioniere. L’ospitalità anche qui è semplice ed accogliente; mangio uno squisito pane toscano con prosciutto garfagnino. Stanco, affamato e quasi triste perché il giro sta per concludersi.
All’alba del giorno dopo, martedì, capisco che cosa vuol dire, dopo due giorni di pedalata per 9000 metri di dislivello in quasi 170 chilometri, affrontare la salita da Vagli di Sotto a Vagli di Sopra, e da qui alla valle dell’Arnetola per attaccare il sentiero nr 35. Lungo la stretta strada che conduce all’attacco, mi sorpassano i mezzi dei cavatori che si recano al lavoro. Mi colpiscono le loro stazze e il colore nero della loro pelle originariamente bianca. Il sole delle cave, il marmo, la polvere, il rumore incessante trasformano le persone in macchine da guerra. Dopo una breve sosta davanti al dicembrino presepe dei cavatori, giungo finalmente ai piedi del monte Tambura, una delle cime Apuane. Alpi, le chiamano, e in effetti non hanno la dolcezza dell’Appennino.
Sono punte di marmo piantate a rovescio a guardia della Toscana. L’inizio del percorso apuano non è per niente facile. Qui la Vandelli doveva essere una rampa di lancio, oppure un trampolino per saltatori. Non posso pensare che davvero l’abate Vandelli abbia potuto credere che questa via fosse utilizzabile. Nel bosco, ciò che resta del lastricato è stato divorato dalle radici dei faggi. La bici è diventata una zavorra pesantissima. Sto quasi salendo in verticale finché, spossato, arrivo alla marmifera, ovvero la strada che ricalca il vecchio tracciato e conduce in alto, al passo.
Non riesco a pedalare, la strada ha il fondo completamente distrutto e le ruote slittano continuamente. La guida diceva “la strada è completamente pedalabile, tranne il breve tratto finale che vi condurrà rapidamente al Passo della Tambura”. Mi decido a trainare la bici. Anche stavolta il dubbio mi assale: davvero chi ha scritto la guida ha pedalato fin lassù? Forse era il campione mondiale di bicicletta fuori strada. Si sale sempre di più e il rumore delle cave vicine è una costante. La vista si apre verso l’Appennino: riconosco lontano il Cusna e più a destra il Cimone. Il loro profilo, visto da qui, è dolce. Attraverso vecchie cave in disuso, mezzi meccanici arrugginiti, tratti di corde d’acciaio tranciate, casupole abbandonate. Ogni tanto si ripresenta il lastricato. Come poggio il piede sui bordi che danno sulle scarpate laterali, si sfalda.
Le pietre sono semplicemente poggiate l’una all’altra. La fatica stavolta è enorme e spero che la strada non si trasformi di nuovo in un sentiero imbarbescato tra i faggi; fortunatamente la via scompare laddove le piante lasciano posto alla vegetazione d’alta quota, inghiottita dalle sassaie apuane. E pensare che trecento anni fa qui c’era una strada. Arrivo al passo della Tambura, a quota 1.620, stravolto dopo mille metri di dislivello in altezza: ora devo solo scendere. La vista sul golfo ligure è straordinaria. Il mare, altre cime, lontanissima, dicono, la Corsica. La piccola madonnina a mani giunte affissa sulla roccia sembra dirmi “ma chi te lo ha fatto fare”, ma è solo un attimo. Sono discretamente felice.
Guardo verso il basso. Normalmente soffro di vertigini, ma stavolta sono così stanco che non ho tempo di farlo. Capisco subito che la discesa non sarà facile né pedalabile. Il sentiero è solo una traccia su una sassaia circondata da profondi canaloni. Impraticabile in sella alla bici, ma almeno non devo affrontare salite. Dovrei trovare, fra poco, il Rifugio Nello Conti. Ne ho un disperato bisogno, ma prima pago un tributo di fatica e attenzione per scendere. Il sentiero è in alcuni tratti franato e occorre scavalcare alcuni punti critici. Lo faccio, con molta calma ed equilibrio, avendo cura di avere sempre punti di appoggio stabili: un errore e si va giù. Scendo di quasi duecento metri alla finestra Vandelli, un piccolo spiazzo erboso, la finestra appunto, nel quale dovevano sostare le carrozze e i carri. Povero abate, ha realizzato un percorso del tutto teorico, da esperto in cartografia ma forse poco pratico di trasporti reali. Mi piace pensare che l’unico carro che lo avesse utilizzato avrebbe impiegato settimane solo per scavalcare questo tratto apuano. Naturalmente d’inverno neanche a parlarne.
Il Rifugio Nello Conti, gestito da Alfredo, è appollaiato tra monti lisciati dall’uomo in millenni di scavi ed estrazioni. Alfredo mi accoglie con un “ma te sei matto” quando gli dico che vengo dall’Emilia e non dalla Toscana. “Queste montagne si fanno a piedi e non in mountain bike – mi dice – eppure ogni tanto capita qualche matto in bici”. E allora perchè i siti garfagnini dicono che si fanno tranquillamente in bici? Dico io. “Perché sono matti”, risponde lui.
Il tratto apuano della Vandelli è quello rifatto meglio, ma purtroppo trascorsi dieci anni nessuno si è preoccupato di mantenerlo in buone condizioni e oggi è un bella mulattiera percorribile a piedi.
Questo tratto del percorso mi conferma la follia del progetto: come poteva pensare, l’ingegnere, che un carro potesse effettuare delle curve a gomito così strette senza il rischio di precipitare lungo i canaloni laterali? Tra l’altro, i carri di allora avevano ruote sterzanti o erano fisse? Se fossero state fisse, allora non c’è dubbio che nessun carro sarebbe mai passato di là. Molto probabilmente, gli stessi lavoranti avevano capito che la strada non era utilizzabile, non fosse altro perché dovevano trasportavi le tonnellate di pietre per il lastricato cercando di utilizzare proprio i carri. Ma si sa, allora alle maestranze era richiesta solo la mano d’opera e non un parere.
Dopo una discesa sfibrante, cercando di stare in sella solo in quei pochi tratti agibili, senza rischio di cadere, superato un piccolo ponte di ferro ormai da restaurare, giungo a quella che una volta doveva essere una strada. Una superficie impraticabile, completamente distrutta dalle piogge. Mi viene un dubbio: ma se qualcuno dovesse farsi male, lassù in alto, pur in presenza di una via, l’unico modo per raggiungerlo è l’elicottero oppure una moto da trial. Nessun altro mezzo sarebbe in grado di transitare sulla Via Vandelli in questo impervio tratto alpino. Figuriamoci trecento anni fa.
Al bar di Resceto, l’oste mi accoglie con amicizia. Mi chiede come ho fatto a portarmi dietro la bici. Gli dico che l’ho fatto con la forza di volontà. Mi chiede circa lo stato della via. Gli dico che è distrutta. “Anche sull’altro versante?” Soprattutto sull’altro versante, gli dico. Un signore, che dieci anni fa ha contribuito al restauro della via, dà il suo parere lapidario: “La via Vandelli non esiste più.”. Me l’hanno già detto in tanti, dico io. Sono convinto che per la gente non sia mai esistita realmente. Neanche i portatori di sale l’hanno utilizzata per lungo tempo.
Da Resceto a Massa è tutta discesa. La strada costeggia un piccolo fiume dove i giovani fanno il bagno, incuranti dell’acqua gelida. Sotto una leggera pioggerellina arrivo in stazione dopo quasi tre giorni di freddi mattini e tiepidi soli diurni per salire su un treno locale fino a Vezzano Ligure. Poi Parma. Infine Reggio. Sono le diciannove del 27 Luglio. Ho fatto il mio viaggio. Un‘ultima cosa: ho gettato la mia guida nel raccoglitore della carta da riciclare.