Visitando le valli dolomitiche e conversando con la gente locale non può passare inosservata una caratteristica saliente che trascende dal paesaggio suggestivo e dalla natura incontaminata: il ladino, un idioma che pur essendo simile all’italiano se ne differenzia al punto da essere considerato una vera e propria lingua romanza.
Le Dolomiti assieme alla prelibatezza dei prodotti tipici e all’affascinante paesaggio permanentemente offerto agli occhi del turista, hanno molto da offrire anche a chi s’interessa di cultura e di tradizioni. Nelle valli che fino al 1918 erano sotto l’egida dell’aquila asburgica, è ancora viva una delle più importanti minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano, quella Ladina, confinante con il tedesco carinziano e il tirolese a nord, con i dialetti lombardo e veneto a sud, con lo sloveno a est.
Facendo visita alle valli Fassa, Gardena e Badia, a Marebbe, Livinallongo, Colle e Ampezzo, territori di lingua ladina dove le tradizioni lentamente si stanno perdendo, l’invito è quello di riflettere sulle trasformazioni che i Monti Pallidi hanno subito nel corso degli ultimi decenni, e sulle spinte globalizzanti che spesso ci fanno perdere la coscienza del diverso e la memoria preziosissima della storia. Nella “Ladinia”, una regione culturale dove la lingua storicamente endemica è stata riconosciuta dalla legge n. 482 del 15.12.99 “Norme per la tutela delle minoranze linguistiche storiche”, non è più tempo di un’economia ai limiti della sopravvivenza, quando le Alpi rappresentavano una risorsa importante per taglialegna, carbonai e pastori, persone con infinita saggezza per sfruttare le risorse della natura senza abusarne ed esaurirle.
I Ladini dolomitici sono una minoranza linguistica che confina con il tedesco carinziano e il tirolese a nord, con i dialetti lombardo e veneto a sud, con lo sloveno ad est. Abitano le valli che si dipanano dal massiccio del Sella: le valli Badia, Gardena (Gherdëina), Fassa (Fascia) e Livinallongo (Fodom); inoltre sempre di etnia ladina sono il Comelico, la val Pettorina, la val Fiorentina (con capoluogo Selva di Cadore), la val del Boite che fa capo a Cortina d’Ampezzo (Ampëz) e San Vito di Cadore.
Nell’ambito di queste realtà territoriali l’isolamento geografico ha portato la lingua ladina a conservarsi praticamente inalterata nei secoli, distinguendosi solo nelle parlate specifiche delle singole valli: dal gardenese al badioto, dal fassano al rocchesano, dal selvano all’ampezzano, dal cadorino al comelicese.
Inoltre esistono differenze linguistiche anche all’interno della stessa valle: in bassa Badia, ad esempio, si parla il “ladin”, in alta Valle il “badiot”, per non citare poi le tante sfumature che si colgono tra un paese e l’altro. Non si creda però che il ladino sia un dialetto, tantomeno un miscuglio tra italiano e tedesco, come purtroppo tante persone erroneamente pensano.
Gran festa da d’istà
Le 20.000 persone che utilizzano l’idioma ladino, il 98% in val Badia, il 75% in val Gardena, percentuale che scende al 50% in val di Fassa e solo il 20% a Cortina, rappresentano quella minoranza in “ritirata” che riesce ad annullare le differenze linguistiche tra italiani, tedeschi e ladini quando con l’arrivo dell’estate si accendono i riflettori sulle feste e le tradizioni locali. Sono eventi che consentono alla gente di stare insieme, di comunicare e rafforzare il senso di appartenenza della comunità, di un popolo orgoglioso di una propria cultura, di una propria parlata, di una coscienza di appartenenza tipica dei gruppi minoritari. Una delle manifestazioni più coinvolgenti è sicuramente la “Gran festa da d’Istà”, in val di Fassa: musica folk, balli folcloristici, specialità gastronomiche accolgono a Canazei turisti curiosi, affascinati da una infinita schiera di ladini trentini, altoatesini e veneti felici di staccare dall’armadio il loro costume da festa. Sono loro i veri protagonisti, forti di una sensazione di assoluta inscindibilità, legati da una forte comunanza di destini, avvolti da una straordinaria sensazione di magia.
A fine agosto la gente proveniente dalle valli circostanti, incolonnata lungo i passi dolomitici, scende a Canazei e si schiera alla periferia del paese, nei vari parcheggi allestiti per l’occasione. All’interno di un grande tendone i turisti possono assaggiare i piatti dell’antica tradizione gastronomica fassana e degustare ottime birre accompagnate da musiche tipiche e balli folcloristici. Ma il clou della “quattro giorni” si raggiunge la domenica pomeriggio quando costumi tradizionali riservati a poche occasioni, maschere scolpite in legno, gruppi e bande musicali attraversano il paese. Lungo il corteo sfilano tre generazioni di ladini e i più piccoli, disorientati e spauriti dalla tanta gente che li osserva, cercano la mano dei genitori. Sono loro, vestiti nei preziosissimi costumi indossati prima di loro dai padri e dalle madri, a rappresentare quel residuo di genuinità sempre più ricercata in un mondo impregnato di appannamenti mentali. I turisti assistono allo spettacolo affascinati ma al tempo stesso certi di stare fuori da questo ordinamento.
Il ladino è sopravvissuto fino ai nostri giorni nella Svizzera meridionale e nell’Italia del nord, distribuendosi in tre settori linguistici diversi: quello occidentale, diffuso nel cantone svizzero dei Grigioni, che comprende la lingua ladina propriamente detta e la lingua romancia (o romantsch), il settore orientale costituito dai Furlani del Friuli, ed infine il settore centrale rappresentato dall’area dolomitica. Quest’ultima non possiede una tradizione letteraria scritta a differenza del blocco orientale dove già a partire dal Trecento si scrivevano i primi testi in prosa e in versi, oppure rispetto al settore occidentale dove al primo libro di catechismo scritto nel 1601 segui una ricca produzione letteraria, soprattutto a carattere religioso, alla quale contribuì non poco anche la traduzione della Bibbia in sursilvan, tra il 1714 e il 1719. Quindi rispetto ai settori occidentali e orientali il ladino dolomitico che si parla nelle valli Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e Ampezzo è privo di una vera e propria tradizione letteraria, una carenza che con ogni probabilità ha favorito nei primi decenni del Novecento il propagarsi di congetture nazionaliste che sostenevano quanto il ladino fosse un dialetto alpino anziché una lingua autonoma, con il solo proposito di far assimilare il ladino alla lingua italiana. Durante il ventennio fascista questa minoranza etnica, che per quattro secoli sotto l’Impero Asburgico aveva mantenuto una propria identità culturale e linguistica, venne divisa in due regioni e in tre province differenti: Bolzano (val Badia e val Gardena), Trento (val di Fassa) e Belluno (Cortina, Livinallongo e Colle di Santa Lucia). Per rendere giustizia a questo smembramento etnico, tuttora esistente, documentazioni e ricerche di etnologi e storici hanno cercato di capire i ladini e le origini del loro linguaggio.
Seguendo una classificazione genealogica si considerano affini due o più idiomi quando in essi si riconosce la discendenza da una comune lingua madre. Nel caso del Ladino un ruolo fondamentale lo ha giocato il Latino volgare, a partire dalla romanizzazione delle Alpi, quando all’epoca di Augusto divenne fondamentale per l’Impero collegare direttamente l’Italia del Nord con i presidi dell’alto Reno, dell’Elvetia e del Danubio. Il latino si affermò tra le popolazioni reto illiriche (che avevano sviluppato una considerevole civiltà già a partire dal V sec. a.C.), assorbendone però alcuni elementi del Retico, tanto che la lingua latina con il passare delle generazioni si trasformò in retoromancio. A partire dal 600 d.C l’antico areale linguistico ladino, che si estendeva dal San Gottardo all’Adriatico, si ritrovò man mano spezzato per via delle invasioni barbariche che introdussero, con la fine della “pax romana”, una cultura di tipico germanico, compromettendo l’originaria unità dell’area. Alla fine il settore linguistico retoromano fu diviso in tre territori separati che hanno avuto un’evoluzione autonoma: i Grigioni (“Rumantsch” “Romanci” o “Romanci Grigioni”), le Dolomiti con i “ladin”, il Friuli con i “furlans”. La perdita d’identità territoriale prosegui durante i primi decenni del Novecento con l’ideologia nazionalista che soppresse il bilinguismo attraverso una politica di forzata italianizzazione del ladino.
Storia di oggi sono invece le 20.000 persone che utilizzano il ladino abitualmente e di cui la maggioranza, ben 8.500, sono concentrati in val Badia, dove il 98% della popolazione farebbe uso di questo idioma. Le cose vanno meno bene in val Gardena dove, pur di fronte a un 90% di ladini, il linguaggio è utilizzato solo dal 75-80%; infatti nel comprensorio di Ortisei (Urtijëi) è forte la tendenza all’assimilazione e al cambio di lingua, soprattutto in favore del tedesco, sia per la vicinanza del capoluogo Bolzano sia per l’intenso e storico turismo austro-tedesco. Dati ancora più preoccupanti si registrano in val di Fassa dove il ladino sarebbe patrimonio di non più del 50% della popolazione; percentuale che scende addirittura al 20 a Cortina, centro internazionale di prima grandezza del turismo estivo ed invernale. Dati allarmanti che testimoniano un andamento negativo rispetto ai secoli trascorsi, quando la cultura locale della gente dolomitica subiva influssi esterni mantenendo però una propria integrità e identità, grazie anche all’isolamento geografico che caratterizzava le vallate dei “monti pallidi”. Oggigiorno preoccupa vedere che la madrelingua è completamente emarginata a livello scolastico, dove al massimo sono dedicate due ore di ladino nella scuola dell’obbligo e una sola ora alle superiori; il risultato è una scarsa conoscenza della lingua tra gli studenti ma anche nel corpo insegnanti, proprio perché quest’ultimi sono stati impossibilitati, a loro volta, dal studiare il ladino alle scuole superiori. L’insegnamento in madrelingua per i Ladini dovrebbe essere un diritto essenziale e irrinunciabile per la sopravvivenza del loro gruppo linguistico che purtroppo non trova riscontro da parte delle tre province in cui vive questa minoranza etnica. La paura concreta è che il ladino in capo a due o tre generazioni possa diventare una lingua morta.