Rischio valanghe in montagna: cosa fare per evitare i pericoli
Le valanghe sono uno dei principali pericoli della montagna invernale: vediamo come si formano e come evitarle
Il tema neve può interessare molti dei nostri lettori,perché ormai sono tantissimi i trekker che, soprattutto nel periodo invernale, frequentano gli ambienti innevati grazie alla diffusione delle ciaspole.
La seconda è che il tema valanghe, anzi, il pericolo valanghe, è qualcosa che riguarda tutti i frequentatori degli ambienti innevati, escursionisti compresi!
Nelle righe che seguono parleremo del manto nevoso, delle sue caratteristiche e di come e perché cadono le valanghe.
Cercheremo di farlo con la semplicità e la chiarezza del linguaggio giornalistico, ma restando su un piano molto teorico.
Non arriveremo alle informazioni più pratiche su come valutare il rischio valanghe durante l’escursione e sulle tecniche e gli strumenti di autosoccorso in caso di incidente.
A queste tematiche dedicheremo in seguito appositi approfondimenti.
Qui abbiamo preferito concentrare l’attenzione sulla conoscenza delle caratteristiche dell’elemento neve, premessa indispensabile per comprendere come avere a che fare con esso durante le nostre gite.
Com’è fatta la neve
Il manto nevoso che fa la felicità dell’escursionista invernale è composto da una miriade di cristalli di neve.
I cristalli si formano nell’atmosfera in presenza di temperature sotto lo zero e poi scendono verso terra, combinandosi fra loro a formare i ben visibili fiocchi di neve.
La struttura di questi delicatissimi cristalli è soggetta, sin dalla loro nascita, a un processo continuo di trasformazione (detto metamorfismo), legato alle condizioni ambientali esterne (temperatura, umidità, azione del vento, ecc).
Proprio il processo metamorfico dei cristalli fa sì che il manto nevoso che essi vanno a formare una volta sul terreno, non sia un tutt’uno omogeneo, ma si costituisca, una nevicata dopo l’altra, come una sorta di “torta”.
Una serie di molteplici strati sovrapposti, con caratteristiche fisiche e strutturali fra loro diverse e in continua evoluzione.
Le reazioni del manto nevoso rispetto all’azione di forze esterne (come la compressione, la trazione, o il taglio) non sono però paragonabili a quelle di un corpo solido, come la torta del nostro esempio, quanto piuttosto a quelle di un fluido viscoso.
Questo vuole dire che il manto riesce a rispondere in modo elastico (attraverso una deformazione di tipo viscoso) a sollecitazioni esterne che vengono applicate in modo lento e graduale.
È in virtù di questa caratteristica che la neve riesce a depositarsi sui pendii e gli oggetti adattandosi ai loro profili.
Quando però la sollecitazione avviene in modo repentino, la capacità di deformazione cala drasticamente (in particolare per quanto concerne le azioni di trazione) e si arriva facilmente rottura (frattura elastica) della porzione di manto sottoposta a queste forze.
Importante è anche notare che i diversi strati del manto nevoso sono caratterizzati ciascuno da una differente capacità di deformazione viscosa.
Come si forma una valanga e perché cade
La risposta più semplice alla domanda “cosa sono le valanghe” è questa: una valanga è il movimento rapido di una massa nevosa lungo un pendio.
In questa risposta c’è già qualche indizio per dare riscontro al quesito successivo: dove possono casere?
Le valanghe possono cadere dove c’è un piano sufficientemente inclinato (almeno 30°) perché possa svilupparsi una componente della forza peso parallela al pendio (forza propulsiva), capace di vincere l’attrito e far scivolare la massa nevosa verso il basso.
Sembra una cosa complicata ma la si può verificare facilmente con un esperimento.
Pendete un libro e appoggiatelo su un piano orizzontale (ad esempio un tagliere da cucina).
In questa situazione la forza peso si scarica tutta nella direzione perpendicolare alla superficie del tagliere e la forza propulsiva risulta nulla.
Infatti, a meno che non siate voi a spingerlo, il libro da solo non si muove.
Se però inclinate progressivamente il tagliere a un certo punto il libro comincerà a scivolare verso il basso.
Quello sarà il momento in cui la componente della forza peso parallela al piano sarà divenuta superiore alle forze d’attrito.
I pendii su cui si è deposita il manto nevoso, però, non cambiano nel tempo la loro inclinazione come fa invece il nostro tagliere.
Perché, quindi, la massa nevosa che “stava su” decide a un certo punto di “venie giù”? Come si verifica il fenomeno della valanga? Come comincia e come finisce?
A guardarlo da fuori, il pendio inclinato coperto dal manto nevoso sembra un luogo di assoluta pace e tranquillità.
Sotto la superficie, però, è costantemente in atto uno scontro di forze titaniche, che si confrontano fra loro in una situazione di equilibrio dinamico.
Da una parte la forza propulsiva che tende a far scivolare la massa di neve verso il basso, dall’altra le forze di attrito, che contrastano lo scivolamento e quelle di coesione fra i cristalli, che determinano la capacità di deformazione viscosa del manto e la sua “resistenza allo strappo”.
Perché questo equilibrio sia compromesso e quindi la valanga si metta in movimento, è necessaria, ma non sempre sufficiente (per nostra fortuna!), la variazione di una di queste forze.
Potrebbe trattarsi di un’evoluzione della metamorfosi dei cristalli, che diminuisca la coesione della neve o riduca le forze di attrito degli strati fra loro o rispetto al suolo, oppure dell’aumento del peso dovuto a una nuova nevicata o dell’intervento di un elemento esterno.
Proprio come un escursionista che, attraversando il pendio, eserciti con i suoi passi una pressione repentina, spezzando i legami di coesione fra i cristalli.
Quando la situazione di equilibrio è compromessa la valanga si mette in movimento.
L’area dove avviene la frattura del manto e dove comincia lo slittamento è detta “zona di distacco”, al di sotto della quale si trova la “zona di scorrimento”, cioè quel tratto del pendio dove la valanga prosegue la sua discesa raggiungendo la massima velocità.
L’area dove la valanga rallenta sino ad arrestarsi, a causa della diminuzione dell’inclinazione del pendio o della presenza di ostacoli, è detta invece “zona di arresto”.
Avere ben presente questa “fisionomia” della valanga è molto importante per l’escursionista, in quanto fornisce un’informazione essenziale per la sicurezza.
Siamo soggetti al pericolo valanghe non solo quando ci troviamo su un pendio di inclinazione superiore ai 30°, cioè nelle potenziali zone di distacco e scorrimento, ma anche quando siamo su terreno orizzontale.
Nelle zone di fondovalle che si trovano ai piedi dei pendii, per esempio, possono essere potenziali zone di arresto delle valanghe.
Quando c’è il maggior rischio di valanghe?
La domanda da cento milioni di euro!
Riuscire a dare una risposta a questo quesito significa saper interpretare la stabilità di un pendio innevato e comprendere quando, quanto e come l’equilibrio di forze che “lo tiene su” possa essere perturbato.
In questa complessa analisi sta tutta l’arte e la difficoltà (molto elevata!) della valutazione del rischio valanghe.
La risposta salomonica, ma che serve a poco per risolvere i nostri problemi, è questa: le valanghe possono cadere subito dopo una nevicata, oppure nei giorni o nelle settimane a seguire…
Cercando di essere meno filosofici e più pragmatici dobbiamo ammettere che, purtroppo, come accade per tanti altri aspetti che riguardano l’andare in montagna, non possiamo fare previsioni sicure al 100%.
Si possono solo adottare strategie di comportamento che ci consentono di limitare e tenere ragionevolmente sotto controllo il rischio valanghe.
É importante anche soffermarsi sulle caratteristiche del manto nevoso in relazione alle condizioni ambientali esterne e su quando si verificano le condizioni che possono portare al distacco delle valanghe.
Mutamenti di temperature e delle condizioni del manto
La metamorfosi dei cristalli è uno degli elementi che determina maggiormente la variazione della stabilità del manto nevoso.
Torniamo quindi a dare un’occhiata a cosa succede negli strati della nostra “torta” di neve.
Cominciamo dalla situazione ideale, quella che tutti vorremmo che si verificasse per la tranquillità e il piacere delle nostre escursioni.
Quando la temperatura dell’aria si mantiene negativa, ma comunque prossima allo zero, anche all’interno del manto si riscontrano temperature simili, che favoriscono lo sviluppo del metamorfismo distruttivo.
La definizione sembra catastrofica, ma in realtà è tutt’altro: con temperature del genere, infatti, i cristalli di neve tendono a perdere la loro struttura “ramificata” e ad assumere forme tondeggianti, cosa che ne migliora i legami di coesione, rendendo il manto più compatto, stabile e resistente alle azioni di taglio e trazione.
Invece, quando la temperatura dell’aria è molto al di sotto dello zero, nel manto nevoso si formano strati più freddi in prossimità della superficie e strati con temperature più alte (prossime allo zero) in profondità.
La differenza di temperatura fra gli strati superficiali e quelli basali, rapportata allo spessore del manto, viene definita gradiente.
Quanto più esso è elevato, tanto più è favorita la costruzione di cristalli sfaccettati, o a calice, negli strati basali ed intermedi (metamorfismo costruttivo).
In superficie, invece, con questa temperatura abbiamo la cristallizzazione dell’umidità dell’aria e la formazione di brina.
Queste condizioni non sono favorevoli al consolidamento del manto: i cristalli a calice, infatti, hanno una capacità di coesione molto bassa e la loro presenza costituisce un elemento di debolezza e instabilità fra gli strati o fra il manto stesso e il suolo su cui poggia, diminuendo la capacità di deformazione e favorendo fenomeni di rottura e slittamento.
Anche la brina superficiale ha caratteristiche simili ai cristalli a calice e, una volta coperta da una nuova nevicata, diviene anch’essa uno strato debole all’interno del manto.
In determinate situazioni la superficie del manto nevoso raggiunge o supera la temperatura di zero gradi, ad esempio a causa della radiazione solare, oppure dell’azione del vento.
In questo caso si instaura un processo di fusione dei cristalli (metamorfismo da fusione) e sulla superficie del manto si forma una “pellicola” d’acqua allo stato liquido, che tende a penetrare all’interno del manto, inizialmente contribuendo alla coesione (coesione per capillarità). È questa la classica condizione della cosiddetta “neve umida”.
Quando però l’acqua di fusione diviene troppo abbondante (neve bagnata), la coesione fra i cristalli si riduce drasticamente favorendo la formazione di valanghe spontanee.
Quando, dopo una fase di riscaldamento come quella appena descritta, la temperatura dell’aria torna al di sotto degli zero gradi, l’acqua abbondantemente presente negli strati più superficiali congela, cementando fra loro i cristalli (coesione da rigelo) e formando croste di neve gelata, che hanno una forte coesione.
È la famosa “neve portante”, tipica, delle migliori condizioni primaverili ed estive e su cui si cammina agevolmente senza sprofondare.
Nel caso di nuove nevicate, questo strato a forte coesione diviene però un elemento di debolezza all’interno del manto, in quanto favorisce lo slittamento degli strati superiori.
Pericolo vento
Accanto alla temperatura dell’aria, un altro fattore ambientale che incide notevolmente sulla stabilità del manto è l’azione del vento.
Una prima tipologia di effetti è sostanzialmente di tipo termico. Il vento secco e freddo induce la sublimazione di cristalli, raffredda e deumidifica la superficie, rallentando l’eventuale metamorfismo distruttivo in corso e quindi l’assestamento del manto.
Il vento freddo e umido, invece, cede vapore e porta alla formazione di sottili strati superficiali più densi, anche se fragili e a debole resistenza.
Su neve in fusione questo tipo di vento porta alla formazione di croste ghiacciate.
Il vento secco e caldo (foehn) riscalda la superficie più di quanto si raffreddi per perdita di umidità (sublimazione o fusione veloce in funzione della temperatura). Il vento umido e caldo cede vapore al manto nevoso riscaldandolo e umidificandolo.
Il vento è anche responsabile di una significativa azione meccanica, in grado di esercitare una grande influenza sulla stabilità del manto.
L’azione consiste nel trasporto de cristalli di neve già depositati al suolo dai versanti sopravento ai versanti sottovento, dove questi si vanno ad accumulare.
Il lato sottovento delle creste, i canaloni, i cambi di pendenza o le zone ai margini dei boschi, sono le tipiche zone di accumulo.
Durante il trasporto dei cristalli il vento esercita anche un’azione meccanica che tende a spezzare le ramificazioni dei cristalli, arrotondandoli e aumentandone la capacità di coesione.
La neve accumulata si presenta quindi spesso come uno strato caratterizzato da una consistente compattezza e rigidità (detto “lastrone”).
Ma questa compattezza è solo apparente e i lastroni di neve depositati dal vento sono una delle trappole più insidiose per l’escursionista.
Spesso, infatti, il lastrone è così soffice da poter essere confuso con un pendio di neve fresca altre volte si presenta come una superficie compatta, abbastanza resistente per sostenere il passaggio di uno o due ciaspolatori / sciatori e può essere scambiato per uno strato stabile di neve portante.
Il lastrone da vento, però, ha quasi sempre una coesione minima con lo strato sottostante ed è legato solamente ai suoi ancoraggi periferici, quindi tende a cedere improvvisamente, con fratture che si propagano velocissime. Una vera e propria trappola perfetta!
Pericolo e rischio
Potremmo anche fermarci qui per questo primo “capitolo” sull’argomento neve e valanghe. In tavola ci sono già un bel po’ di portate da masticare e digerire.
Però è bene aggiungere un ultimo argomento, con taglio un po’ “filosofico”, ma comunque utilissimo per aiutarci a gestire al meglio le nostre escursioni. Stiamo parlando della differenza fra pericolo e rischio.
In questo articolo abbiamo esaminato le caratteristiche dell’ambiente innevato e abbiamo messo in evidenza il come e il perché questo ambiente presenti dei potenziali pericoli, intendendo con pericolo la possibilità che si verifichino eventi come le valanghe, potenzialmente dannosi per l’escursionista.
Il pericolo, dunque, è qualcosa che dipende dalle caratteristiche dell’ambiente nel quale l’escursionista si muove, caratteristiche sulle quali noi non possiamo influire.
Quello che dipende da noi è la decisione rispetto quanto e come esporci a questi pericoli, cioè la decisione sui rischi che ci assumiamo effettuando la nostra gita.
Può apparire eccessivo parlare di rischio per un’attività tranquilla come l’escursionismo.
Ma in effetti il “rischio zero” non esiste, in nessuna attività umana, tantomeno quando ci si muove in un ambiente naturale come quello della montagna innevata.
Camminare d’inverno significa esporsi a una serie di potenziali pericoli.
Maggiore è questa esposizione, maggiore è il rischio che corriamo, cioè la possibilità di subire conseguenze dannose dall’avverarsi di qualcuno di questi potenziali eventi pericolosi.
Gestire in modo corretto una gita sulla neve, significa prendere decisioni consapevoli sul se, come e quanto rischiare, cioè esporsi ai pericoli dell’ambiente innevato.
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