In realtà, il patrimonio comune è, da molti tra quelli che detengono potere, considerato un territorio di caccia per ambizioni e speculazioni, una sorta di “terra di nessuno” dove chi è più forte, furbo e veloce nel prevaricare e calpestare i diritti della comunità, spesso dimenticati o manipolati, può aspirare ad accaparrarsi risorse, beni e diritti che diventano, con un perverso gioco di automatismi, privilegi e proprietà personali.
E il nostro paese è un’autentica enciclopedia di malgoverno del territorio e delle sue risorse, a partire dalla speculazione edilizia, per arrivare alla cementificazione incontrollata e indiscriminata dell’ambiente naturale, passando attraverso le pagine tragiche del dissesto idrogeologico, dello spreco di risorse naturali, finendo con una ricca appendice sullo scempio culturale a danno del nostro patrimonio storico, sociale, tradizionale.
Nel 1847, prima dell’esplosione dell’Epoca Industriale e del marxiano Manifesto dei Comunisti, Alexis de Tocqueville presagiva: “Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà.
In 150 anni, l’idea di proprietà si è dilatata dal concetto di latifondo, ovvero la proprietà terriera di metà Ottocento, arrivando a coinvolgere, oggi, i “beni comuni” – acqua, aria, conoscenza, patrimoni culturali e ambientali – che in modo più o meno sotterraneo sono al centro di un conflitto planetario tra “diritto di tutti” e “proprietà di alcuni”, i quali possono disporne e metterli a disposizione a fronte di guadagni speculativi.
Nessuno di noi è comunista (personalmente ritengo il “comunismo” una distorsione storica legata a uno specifico periodo di contrapposizione tra enormi poteri in mano a oligarchie fondamentaliste e masse diffuse di “diseredati” senza capacità di migliorare autonomamente la propria condizione), eppure riteniamo di avere il diritto di bere, di respirare, di camminare su un prato o sulla riva di un mare, senza doverne rendere conto a nessuno.
Non è più così, e non siamo più neppure padroni di noi stessi: in nome di un presunto diritto derivato da investimenti economici per la ricerca scientifica, le multinazionali hanno fatto diventare “privati” i genomi di frutta, verdura, cereali, animali, arrivando fino a “brevettare” la proprietà sul DNA umano.
Lucrando guadagni immensi su medicine e farmaci e lasciando morire chiunque non sia in grado di sottostare a questa inverosimile vessazione, come insegnano le pandemie che colpiscono i paesi economicamente poveri.
Nazioni e popoli che assistono impotenti al furto delle risorse e materie prime di cui questi territori sono solitamente ricchi e che se ben gestite potrebbero affrancarli dalla povertà, e vanno invece ad aumentare la bulimia di denaro e potere di poche società sovranazionali senza volto, con la complicità di governanti che invece un volto ce l’hanno. Sempre truce e becero dietro i sorrisi plastificati e gli slogan populisti.
Nella nostra ignavia tecnologica, drogata da monitor di ogni dimensione, dai formati tascabili di cellulari e tablet ai widescreen casalinghi, che rigurgitano a ritmo continuo simulacri di realtà e tragedie che crediamo illusoriamente anni luce lontane da noi, non ci siamo resi conto che ci stanno derubando di tutto. Della coscienza, della dignità, della capacità di critica e valutazione, di emozioni e sentimenti sostituiti da reality e videogames.
Ci hanno rubato, a noi italioti, la cultura e la lingua, macellate da delinquenziali riforme scolastiche che mettono al vertice delle priorità giovanili la capacità di usare un computer – strumento progressista e meritorio se non fosse che serve principalmente per avvicinare e sognare di acquistare sempre nuove chimere, compreso l’amore, “l’amicizia” e il denaro facile – e parlare in inglese, altro traguardo rispettabile se però prima sapessimo esprimerci in modo almeno elementare in italiano, conoscendo magari anche qualche parola di quei dialetti locali custodi di infinite saggezze antiche.
Ci hanno derubato del fascino delle Dolomiti, che da quando sono divenute “patrimonio dell’Umanità” sono aggredite da un patetico “federalismo demaniale” che ha come unico intento la spartizione mercantile di un territorio unico al mondo, che potrebbe divenire accessibile solo a chi paga un biglietto.
Adesso stanno tentando di derubarci anche dell’acqua. Elemento indispensabile per sopravvivere, che non può cadere in mano agli inghippi speculativi tra pubblico e privato.Un milione e quattrocentomila italiani hanno dovuto firmare una richiesta di referendum per fermare la privatizzazione dell’acqua, che, per la sua indiscutibile configurazione di “bene comune”, dovrebbe essere a “titolarità diffusa” e appartenere contemporaneamente a tutti e a nessuno.
Da utilizzare pagando ovviamente il giusto prezzo per la gestione, suddiviso anche in base alla singola capacità contributiva, ma sicuramente non come “merce” su cui qualcuno, chicchessia, pubblico o privato, possa ottenere utili e guadagni. Evidentemente non è così, e l’idea che basti affidare un “bene comune” al governo pubblico per vederne automaticamente salvaguardata la “libertà” si è sgretolata e polverizzata nelle macine di interessi privati e corporativi che ormai rappresentano la vera metastasi della politica.
Il concetto di “solidarietà” insito nell’essenza di un “bene pubblico”, e la sua tutela che dovrebbe mirare a consegnarlo – intatto o addirittura migliorato – al futuro, sembrano macabre barzellette di fronte alla violenza con cui i nostri politici, ormai totalmente affrancati da qualsiasi morale, hanno demolito anche i più elementari diritti di ogni cittadino.
Spalleggiati dalle mafie e connivenze dei “furbi”, hanno trasformato “beni pubblici” qual’è l’acqua in merce che deve produrre profitto, esattamente come quattro secoli fa, quando, a partire dall’Inghilterra, le terre coltivabili fino ad allora “bene pubblico” vennero sottratte allo sfruttamento comune, recintate e “assegnate” ai nobili e agli affaristi divenendo “proprietà privata”.
Un rigurgito di coscienza è richiesto a tutti, per rivalutare concetti ormai “vecchi” come “Futuro”, cancellato dallo sguardo corto della speculazione nel breve periodo; “Eguaglianza” perché i “beni comuni” non possono sottostare alla capacità individuale di pagare un servizio indispensabile alla sopravvivenza; “Democrazia” che dovrebbe rappresentare una uguale dotazione di diritti per ogni persona.
Nella nostra Costituzione, nonostante qualcuno voglia riscriverla a proprio uso e consumo, si sancisce che i “beni comuni” devono essere “accessibili a tutti” e quelli che l’hanno formulata non erano certamente “comunisti”. Più di questi ultimi, personalmente, detesto solo i ladri.