Inquinamento dei fiumi: solo il 14% si salva dai danni dell’uomo

26 febbraio 2021 - 15:52

Un recente studio rivela che la biodiversità degli ecosistemi fluviali e delle acque dolci è a rischio. Le attività umane hanno profondamento cambiato e impoverito questi habitat, che ormai tendono ad essere più poveri di specie e pericolosamente simili tra loro.

L’uomo: il peggior nemico dei fiumi

I fiumi sono in pericolo e con loro le popolazioni animali – pesci innanzitutto, ovviamente – che li abitano.

Secondo una recente ricerca pubblicata su Science soloil 14% delle popolazioni ittiche nei fiumi di tutto il  mondo è riuscita a scampare i danni delle attività umane.

Lo studio, diretto da Sébastien Brosse dell’ Università Paul Sabatier di Tolosa, ha preso in considerazione 2500 fiumi ai 4 angoli del pianeta.

Altre indagini precedenti prendevano in considerazione solo il numero di specie coinvolte.

In questo caso si è tenuto conto del loro ruolo nell’ecosistema, delle relazioni tra le specie e delle variazioni negli indici di biodiversità negli ultimi due secoli.

Le regioni più colpite si sono rivelate, come ci si poteva attendere, le più industrializzate.

I maggiori cambiamenti in senso negativo sono stati riscontrati infatti in Nord America ed Europa.

Nel vecchio continente in particolare, si è assistito ad una vera e propria sostituzione di specie.

I grandi storioni e salmoni autoctoni, ad esempio, hanno ceduto il passo a specie invasive come la carpa asiatica e il pesce gatto.

Quella delle cosiddette specie aliene, introdotte in un ambiente totalmente diverso dal loro ecosistema originario, è ormai una prassi comune in Europa Occidentale.

Questo sostituzione è stata favorita anche dagli interventi umani compiuti su fiumi e torrenti.

L’interruzione dei corsi d’acqua con dighe e la creazione di bacini artificiali ha favorito lo sviluppo di una popolazione di pesci che si adattano particolarmente bene a questi nuovi ecosistemi.

Carpa comune e persico trota sono così diventate le specie di pesci più diffuse nelle acque dolci globali.

Una menzione particolare merita poi la tilapia, come si può leggere in questo profetico articolo di qualche anno fa del Sole24ore.

Biodiversità a rischio

Questa omogeneizzazione delle specie – e conseguente riduzione della biodiversità – è un fattore di rischio per l”intero ecosistema.

Una popolazione ittica meno eterogenea è infatti anche meno in grado di rispondere ai cambiamenti ambientali, come quelli che ad esempio gli scienziati preannunciano col riscaldamento globale.

Se a questo aggiungiamo i danni da inquinamento industriale, la pesca o al contrario l’allevamento intensivo, l’uso delle acque per irrigamento agricolo, possiamo ben capire a quale assalto questi fragili ecosistemi siano stati sottoposti negli ultimi due secoli.

Gli autori della ricerca ci ricordano che quando si parla di bacini di acque dolci, laghi e fiumi, spesso si dimentica che sono ecosistemi essenziali.

Pur coprendo circa solo l’1% della superficie del pianeta, le 17 mila specie che ci vivono rappresentano il 25 % dei vertebrati.

Iniltre, da laghi e fiumi traggono sostentamento e acqua milioni di persone.

 

Un unico grande ecosistema (meno vario e più povero)

I bacini meno colpiti da questi sconvolgimenti sono ovviamente quelli che si trovano in aree meno popolate, in Australia e Africa.

Questi coinvolgono però solo il 22% della fauna mondiale e non sono sufficienti a garantire la conservazione della biodiversità a livello globale.

Inoltre, in particolare in Africa, lo sviluppo del continente – che tutti auspicano –  comporterà inevitabilmente uno sfruttamento intensivo delle risorse paragonabile a quello occidentale, con l’aggravante di un assai probabile minor numero di controlli.

Questo è peraltro qualcosa di simile a quanto avviene in materia di inquinamento atmosferico e riscaldamento globale, con le diverse sensibilità tra paesi occidentali e paesi in via di sviluppo.

D’altra parte non c’è neppure da attendere fasi più avanzate di sviluppo economico.

Alcuni grandi corsi d’acqua che attraversano questi paesi, il Rio delle Amazzoni, il Mekong e il Congo, risultano già gravemente impattati dalle attività umane, non diversamente che in Occidente.

 

Il futuro: agire a livello globale

Dalla ricerca emerge una situazione critica, se non drammatica per la gran parte dei corsi d’acqua nel mondo.

Né, come detto, vale a indorare la pillola il fatto che esistano aree del pianeta dove i corsi d’acqua riescono a conservare indici di biodiversità non troppo distanti da quelli di qualche decennio fa.

Questi bacini rappresentano una percentuale troppo piccola e si può prevedere che sono anch’essi a rischio con l’inevitabile sviluppo economico di quelle aree.

Gli autori dello studio sottolineano quindi la necessità di non limitarsi a preservare i corsi d’acqua ancora non troppo danneggiati dall’uomo.

Occorre innanzitutto agire a livello globale per conservare e restituire, per quanto si può, ricchezza e biodiversità a fiumi e corsi d’acqua nelle aree a maggior sviluppo economico, Europa e Nord America innanzitutto.