Ho la fortuna di conoscere Walter. Uno dei miti della mia vita, prima ancora d’essere uno dei più grandi scalatori di tutti i tempi.
Di quelli, per intenderci, che si contano sulle dita di una mano.
Protagonista, insieme a nomi quali Preuss, Cassin, Hillary e Buhl della storia dell’alpinismo. E questi meriti gli sono riconosciuti da tutti, a livello planetario, avvallati da importanti onorificenze e soprattutto dal rispetto della comunità degli alpinisti, di qualsiasi razza e colore.
L’avventura però a questo punto si intorbida. I dati della storia racconteranno che Walter e il compagno pakistano vengono letteralmente abbandonati, senza alcun riparo né attrezzatura, in bilico su un fazzoletto di neve verticale.
Probabilmente vittime dell’egoismo e dell’incapacità – caratteristiche umane peraltro spesso condizionanti nelle grandi imprese – di dividere con altri un momento storico. Un bivacco all’addiaccio, a quelle quote, potrebbe uccidere chiunque.
Non Walter, un fisico extraterrestre caduto sulla terra, come dimostrerà in altre, drammatiche circostanze. Nei seguenti cinquant’anni Bonatti ha sempre urlato la sua verità.
Se c’è un errore, piccolo piccolo, che addebito a questo gigante, ostinatamente incaponito nello “spiegare” come sono andate veramente le cose, è il non credere fino in fondo nella sua grandezza, pretendendo una sorta di riconoscimento “universale”.
Che di solito si tributa ai martiri e ai santi, dopo che se ne sono andati.
L’Italia di allora non aveva bisogno di esprimere straordinari talenti solitari, quanto di dimostrare la coesione e la capacità di tante “formichine”, uscite massacrate dall’uragano della guerra civile, di realizzare un’impresa “impossibile”.Ma la storia dell’alpinismo non l’ha scritta il CAI, caro Walter.