La conservazione delle grandi aree verdi per contrastare la crisi climatica
Gli incendi nella foresta Amazzonica, le trivellazioni in Alaska e la cementificazione che procede a passi spediti hanno un minimo comun denominatore: il business e il profittoad ogni costo, privo di visione e lungimiranza.
Proprio queste storture dell’economia di mercato stanno rischiando di vanificare gli sforzi che, finalmente, diversi attori pubblici stanno cercando di mettere in atto per contrastare la Crisi Climatica.
Gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Gran Bretagna e perfino la Cina stanno pianificando politiche per la conversione energetica dell’industria, per intervenire sul trasporto pubblico e privato e per ridurre lo spreco energetico. Potrebbe però non bastare, se imprese, multinazionali e soprattutto cittadini non modificano le loro abitudini e i loro stili di vita.
Il nostro consumo eccessivo di carne sta distruggendo l’Amazzonia
Periodicamente i media televisivi parlano dei grossi incendi che mangiano ettari di Amazzonia, senza però spiegare qual è l’origine di questa distruzione. Non si tratta infatti di conseguenze di siccità e incuria, come avviene per esempio in California, ma sono azioni di aziende e coltivatori che cercano di strappare alla foresta terra da coltivare.
Come mai i Brasiliani hanno tutta questa necessità di coltivare. Le terre in quel paese non mancano, c’è davvero bisogno di aggredire i boschi vergini?
La risposta è nel mercato, infatti buona parte della soia che arriva in Europa e negli USA proviene proprio dal Brasile, un cereale importante perché utilizzato per i mangimi degli animali da allevamento.
Nei paesi occidentali ci sono norme stringenti sulle coltivazioni, sul disboscamento e sull’utilizzo di piante O.G.M., provenienti cioè da sementi geneticamente modificate, ma in Brasile non ci sono limitazioni, anzi il Governo chiude gli occhi e si impegna a contrastare gli ambientalisti anziché fermare la distruzione delle foreste.
In occidente consumiamo enormi quantità di carne, fino a sprecarla, abbiamo bisogno quindi di allevamenti intensivi e gli animali hanno bisogno di mangime, ed ecco che il cerco si chiude.
Mentre noi stiamo attenti a non avvelenare il pianeta, dall’altra parte dell’Atlantico distruggono il polmone verde più grande del mondo per sfamare gli animali destinati ai macelli di casa nostra.
Il Guardian ha riportato che nei primi nove mesi del 2020 c’è stato un incremento degli incendi rispetto allo scorso anno pari al 13%, i satelliti hanno rilevato ben 32 mila focolai nella foresta amazzonica.
Una situazione drammatica, un peggioramento continuo, lo scorso anno sono andati in fumo oltre un milione di ettari di superficie boschiva.
Questa devastazione ha conseguenze enormi per la lotta ai cambiamenti climatici, infatti perdere alberi significa diminuire l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera e quando spariscono milioni di ettari della foresta più grande del mondo, la situazione diventa critica.
In Alaska si distruggono interi parchi naturali per il petrolio
Il discorso non cambia se parliamo dell’Alaska, l’immenso stato americano ricoperto in gran parte da boschi e aree di natura selvaggia popolate da orsi polari, renne caribù e un mare ricco di pesce e ancora poco inquinato.
In Alaska però c’è anche qualcos’altro che, ad occhio nudo, non si vede: sono i giacimenti di petrolio e gas naturale che si nascondono sotto la superficie ghiacciata e sui quali le grandi compagnie petrolifere hanno messo gli occhi da tempo.
Il prezzo del petrolio sta calando, le auto a combustione saranno presto superate e quei combustibili sono tra i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico. Poco importa però, c’è ancora domanda di petrolio sui mercati e le aziende americane preferiscono estrarlo in patria, con costi e rischi minori.
Per questo diversi petrolieri hanno fatto pressioni sul Governo per ricevere l’autorizzazione a trivellare le terre dell’Alaska, uno dei luoghi più ambiti è l’Artic National Wildlife Refugee una riserva naturale. Una riserva naturale grande all’incirca come la Puglia nella quale vivono circa 200 specie marine e terrestri diverse, un’oasi di biodiversità.
Alcune rilevazioni hanno identificato la possibilità, nemmeno la certezza, che sotto quell’immensa area verde ci possano essere enormi giacimenti di petrolio.
La riserva naturale è di proprietà dello stato dell’Alaska, che ha quindi competenza a rilasciare le licenze e ad incassare royaltees e percentuali sul petrolio estratto, emolumenti piuttosto redditizi per le casse pubbliche.
Fino a qualche anno fa la Casa Bianca, con supporto bipartisan, ha sempre bloccato le iniziative delle lobbies del petrolio, ma nel 2016 Presidente degli Stati Uniti è diventato un uomo d’affari che ha sempre dichiarato di non credere troppo al cambiamento climatico, una fake news creata dagli scienziati.
Nel 2017, un congresso a maggioranza Repubblicana, su pressioni del Presidente, ha varato una riforma fiscale che, tra le altre cose, ha allentato i limiti e restrizioni per le estrazioni di petrolio dando sostanzialmente il via libera all’assegnazione delle licenze per le perforazioni anche in quell’area protetta.
In questi ultimi anni le compagnie si sono mosse, cercando finanziatori e facendo pressioni sull’Alaska affinché disponesse le procedure di gara per l’assegnazione delle licenze. La burocrazia si è mossa in fretta e ha fissato per il gennaio 2021 le aste per assegnare i permessi.
La situazione politica è cambiata, Donald Trump sta per lasciare la Casa Bianca e il neoeletto presidente Joe Biden è pronto a fare il suo ingresso.
Biden in campagna elettorale ha puntato molto sul contrasto ai cambiamenti climatici e la tutela dell’ambiente. Difficile però che si riescano a modificare norme approvate dal Congresso e ad interrompere procedure ormai in corso.
L’inizio dell’attività estrattiva comporterebbe la completa distruzione dell’area protetta, le compagne sono pronte a costruire decine di pozzi petroliferi, oleodotti per il trasporto del greggio, nuove strade ed edifici per la gestione dei giacimenti.
Un altro duro attacco ad un altro polmone verde del pianeta, sempre e solo per un profitto privato, peraltro a brevissimo termine.
Solo le conseguenze della grave emergenza Covid potrebbero vanificare il progetto, infatti i drastici cali del prezzo del greggio del 2020, dovuti al calo della domanda, potrebbero rendere questi investimenti poco fruttuosi.
È di poche settimane fa la notizia del dietrofront di diverse banche d’investimento che avevano sostenuto in un primo momento l’operazione. Questi impianti sono molto costosi e i lavori di realizzazione richiedono ingenti capitali spesso prestati dalle grosse banche, il rapido peggioramento del mercato ha fatto desistere gli istituti.
Goldman Sachs, J.P. Morgan e Wells Fargo hanno fatto sapere che non saranno più della partita, i ritorni sull’investimento sono troppo incerti, la crisi del petrolio infatti non accenna a diminuire e i costi dell’operazione sono troppo pesanti.
Le compagnie petrolifere, senza il supporto finanziario delle grandi banche, potrebbero anche valutare di tirarsi indietro, alcune lo hanno fatto altre ci stanno pensando, rimane ancora un briciolo di speranza per quell’angolo selvaggio di Alaska.
Il cemento che soffoca l’Europa e l’Italia
Torniamo infine nel vecchio continente, in Europa la minaccia principale si chiama consumo del suolo.
I dati raccolti dal Eurostat, l’ente che conduce rilevamenti statistici a livello europeo, hanno constatato come tutto il territorio europeo sia soggetto a due minacce principali: la cementificazione, che fa rima con dissesto idrogeologico, e l’inquinamento atmosferico, che ogni anno provoca migliaia di vittime.
La difesa del suolo dovrebbe essere una priorità della politica, perché ha un impatto su tutti i settori, l’economia, la salute pubblica, la sicurezza, è il fondamento stesso della vita sulla terra.
Infatti, il suolo fornisce il 95% delle risorse alimentari che ci sfamano, contiene più carbonio di tutte le piante presenti sulla terra.
Inoltre, la cementificazione è responsabile dell’impoverimento delle falde acquifere, di gran parte delle frane e degli smottamenti e provoca un costante aumento delle temperature medie delle città, che sono ormai vere e proprie isole di calore.
Il suolo si consuma quando viene edificato, per immobili industriali, civili e commerciali, oppure quando vengono costruire infrastrutture come strade e autostrade. Il suolo cementificato, nella quasi totalità dei casi, è poi irrecuperabile, aree verdi o agricole che perdono definitivamente le loro funzioni.
In Italia nel 2019 si sono cementificate oltre 57 chilometri quadrati di suolo, un dato preoccupante per un territorio fragile come quello italiano, in cui ogni anno si contano miliardi di euro di perdite per eventi collegati al dissesto idrogeologico.
Nel podio delle regioni di questa poco virtuosa classifica troviamo Veneto, Lombardia e Puglia mentre sono Roma e Catania le città che hanno coperto più superficie naturale o agricole con nuove costruzioni.
Una perdita enorme il settore agroalimentare, una delle eccellenze del made in Italy, infatti le stime dell’ISPRA ipotizzano che il territorio cementificato negli ultimi sette anni ci abbia sottratto 3,7 milioni di quintali di prodotti agricoli e 25 mila quintali di prodotti legnosi.
Ancora più imponenti i dati legati alla tutela dell’ambiente, infatti il suolo che abbiamo definitivamente perso avrebbe assorbito due milioni di tonnellate di carbonio, assorbito oltre 300 milioni di metri cubi di acqua piovana che avrebbero arricchito le falde acquifere.
Quest’ultimo dato è direttamente legato alla desertificazione del territorio e alla perdita di 3 miliardi di euro ogni anno, in termini di servizi ecosistemici che il suolo garantisce.
L’importanza di consumi responsabili e sostenibili
Per fare un passo deciso verso la sostenibilità ambientale e il contrasto ai cambiamenti climatici è essenziale il ruolo di ogni singolo cittadino. I comportamenti delle collettività influenzano l’ambiente ma, soprattutto, influenzano mercati e imprese che possono essere spinte verso produzioni sostenibili.
Abbiamo visto che molti Stati e Governi stanno tentando di fare la loro parte, adesso sono comunità e imprese che devono fare passi avanti. Nell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, un programma d’azione il pianeta e la prosperità che nel settembre 2015 hanno firmato 193 Paesi, sono indicati 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile.
Punti che dovrebbero guidare lo sviluppo del mondo nei prossimi 15 anni, con l’obiettivo di raggiungerli entro il 2030. Lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico, sono alcuni dei capisaldi di questi ‘Obiettivi comuni’, particolarmente indicativo l’obiettivo numero 12 che recita “Il consumo e la produzione sostenibile puntano a “fare di più e meglio con meno”, aumentando i benefici in termini di benessere tratti dalle attività economiche, attraverso la riduzione dell’impiego di risorse, del degrado e dell’inquinamento nell’intero ciclo produttivo, migliorando così la qualità della vita.”.
Una chiara presa di coscienza circa la necessità di avere consumi ed economia responsabile, un utilizzo delle risorse responsabile ed ottimizzato, che porti il mondo a non consumare più delle risorse disponibili, un processo che poterebbe inevitabilmente al collasso planetario.