La grande truffa dell’acqua minerale

…oltre alla situazione di degrado cronico degli acquedotti pugliesi, gravi irregolarità nell’erogazione si registrano sul 24% della popolazione in Molise, sul 30% in Sicilia e addirittura sul 45% in Calabria, causate non da “siccità”, ma dal cattivo sfruttamento delle falde e delle condotte colabrodo.

18 marzo 2020 - 10:14

L’acqua, da bene primario, è diventata oggetto di ricatto da parte della criminalità organizzata e di sfruttamento da parte delle grosse multinazionali.

A parte questi casi eclatanti di “storica” malagestione politica delle reti idriche, negli ultimi anni gli acquedotti italiani, anche grazie a una normativa molto restrittiva, sono riusciti a raggiungere l’obiettivo di fornire acqua potabile di ottima – a volte eccellente – qualità alle nostre case.

Anche i vecchi problemi di “clorazione” che, pur garantendo un’acqua esente da impurità e batteri, la rendevano poco attraente al gusto, sono stati superati con nuove tecnologie.

Nonostante questo, siamo i più grandi consumatori al mondo di acqua in bottiglia, e in vent’anni abbiamo triplicato il quantitativo consumato: ogni italiano beve annualmente poco meno di 200 litri di acqua in bottiglia, ben otto volte la media mondiale e il doppio che nel resto d’Europa!

Con alcune, grandi differenze: il 70% dei sardi beve acqua minerale, mentre il 91% dei trentini beve l’acqua potabile che “sgorga” dal rubinetto.

Un po’ di numeri

177 imprese e 287 marchi, 11 miliardi di litri all’anno bevuti da 38 milioni di italiani, quasi 5 miliardi di Euro di fatturato e il primato mondiale di produzione sono i numeri del business “acqua minerale made in Italy”.

Un vero affare per un prodotto che scende spontaneamente dal cielo, passa sulla terra e deve essere semplicemente imbottigliato e… pubblicizzato.

Il raffronto dei prezzi tra acqua minerale e potabile è stupefacente: mediamente un litro di acqua minerale costa 0,40 Euro (circa 775 “vecchie Lire”) al litro contro 0,001 Euro (meno di 2 “vecchie Lire”) al litro dell’acqua potabile del rubinetto.

Tra le acque minerali commercializzate, le differenze di prezzo hanno dello sbalorditivo: tra la S. Pellegrino e la Monteverde, la differenza di prezzo è di +455%, determinata esclusivamente dal costo della promozione pubblicitaria.

Per convincere i consumatori a comprare l’acqua in bottiglia, a scapito di quella quasi gratis del rubinetto, nel 2005 gli imbottigliatori hanno acquistato spazi pubblicitari per oltre 400 milioni di Euro.

Quello che si punta a vendere sono i contenitori di plastica che contengono il prezioso bene… che dovrebbe essere di tutti

I controlli di qualità

Si potrebbe pensare, a questo punto, che l’unico motivo per bere acqua in bottiglia possa essere la garanzia di qualità, ma anche in questo caso la verità è stupefacente,

Le reti idriche degli acquedotti italiani sono soggette a una quantità incredibile di controlli (a Milano si eseguono circa 70 analisi al giorno) mentre i produttori di acque minerali hanno obblighi irrisori, si parla di controlli obbligatori solo ogni 5 anni, e affidati a laboratori privati, facilmente “addomesticabili”.

 

La grande truffa dell’acqua in bottiglia

Fino a qualche anno fa, le “acque minerali” dovevano comunque sgorgare da fonti certificate, monitorate, e con caratteristiche dell’acqua almeno particolari rispetto alla semplice acqua potabile.

Poco importa se, anche in questo caso, si potrebbe configurare quantomeno l’appropriazione discutibile, ancorchè tollerata dalle normative, di un bene che appartiene a tutti i cittadini, poichè le acque sotterranee fanno parte del demanio pubblico.

Le aziende private che sfruttano le falde acquifere potabili, infatti, pagano alla collettività un irrisorio “canone di coltivazione”, a fronte della concessione, spesso permanente, di un bene pubblico.

In pratica, gli amministratori che dovrebbero gestire, e non svendere il patrimonio collettivo, lo hanno invece“regalato” alla speculazione delle multinazionali.

Se nella legislazione italiana “il quadro normativo stabilisce che le risorse idrominerali sono un bene pubblico, fanno parte del patrimonio indisponibile delle regioni e il loro uso deve essere improntato all’interesse pubblico”, non si capisce come sia possibile che in calce alle concessioni “regalate” ad alcuni famosi marchi di acqua minerale figuri la scritta “perpetua”.ù

Significa che alcune multinazionali accumulano miliardi vendendo l’acqua di tutti, per sempre, come la San Pellegrino (Nestlé), che fino al 2002 pagava 5 milioni e 270 mila lire all’anno per la concessione; in rapporto, quasi stupiscono  i 33 milioni e 464.500 lire (sempre dati 2002) sborsati per imbottigliare la Levissima (ancora Nestlé).

Nestlè (che vende nel mondo 19 miliardi di litri d’acqua), ha in concessione lo sfruttamento delle fonti di Peio, in Trentino, da cui estrae e imbottiglia 110 milioni di litri/anno (con un ricavo di circa 35 milioni di Euro/anno), e attualmente paga al Comune di Peio una tassa di concessione di 30.000 Euro l’anno.

Oggi, almeno sulla carta, le aziende che sfruttano l’acqua sono soggette a una minima tassa di 0,0005 Euro al litro, ma solo sul prodotto imbottigliato; tanto per fare un esempio, in Lombardia (la regione più ricca di fonti e sorgenti) vengono imbottigliati 3 miliardi di litri d’acqua, ma altri 7 miliardi di prezioso liquido vengono sprecati nelle fasi di lavorazione.

La truffa, però, è ben altra, e sconvolgente: oggi, spesso, nelle bottiglie di plastica in vendita sugli scaffali dei supermercati, o sui tavoli di pizzerie e ristoranti, si trova “acqua microfiltrata”, pagata a prezzo dell’acqua minerale, ma altro non è che acqua del rubinetto, la stessa che esce da quelli delle nostre case, messa in bottiglia e ricostituita con l’aggiunta di anidride carbonica e sali minerali.

Nel mondo, l’azienda leader nella vendita di “acqua del rubinetto” è la Coca Cola, che la imbottiglia soprattutto per i paesi del terzo mondo, privati dell’acqua come bene comune.

Con risvolti curiosi, se non fossero tragici: l’acqua Dasani (Coca Cola), prelevata dall’acquedotto pubblico della contea di Kent e commercializzata in Gran Bretagna, con un aumento del prezzo di 3.166 volte rispetto al costo di origine, è stata ritirata dal mercato perché, nonostante uscisse pura dal rubinetto, come certificato da numerose perizie, una volta imbottigliata diventava potenzialmente pericolosa perché addizionata con una elevata percentuale di bromato, nota sostanza cancerogena.

Acqua “doc” italiana

Anche in Italia, nessuna legge vieta di imbottigliare l’acqua del rubinetto, basta sapersi organizzare.

Per ora questa truffa legalizzata è limitata, si ritiene infatti che non raggiunga ancora il 4% della produzione totale di acqua minerale, con un fatturato prevedibile in circa 200 milioni di Euro.

Il fenomeno però potrebbe crescere, data la tendenza generalizzata a privatizzare gli acquedotti pubblici.

Dal punto di vista sanitario, potrebbe quasi essere un vantaggio: la legislazione italiana ha parametri molto restrittivi (circa 200) per l’acqua di rubinetto, rispetto all’acqua “minerale” in bottiglia (solo 48).

Un esempio su tutti: la concentrazione massima di arsenico nella minerale fino a poco tempo fa poteva ancora essere di 50 microgrammi/litro (tre anni fa arrivava a 200, quando l’Oms dal 1993 ne ha fissato il limite a 10), mentre dal rubinetto per legge non può uscire acqua con più di 10 mg/l di arsenico. Dunque l’acqua di casa è più sicura.

Le cifre dello scandalo

Con investimenti pubblicitari che non hanno uguali per nessun’altra bevanda, è facile capire come i gruppi che controllano i tre quarti della produzione totale italiana – San Pellegrino/Nestlé, San Benedetto Italaquae/Danone, Uliveto/Rocchetta, Spumador, Norda e San Gemini – costituiscano una lobby (Mineracqua, la Confindustria delle acque), in grado di pilotare le campagne pubblicitarie e “convincere” il legislatore a tutelare più il business che la salute.

Fin dal 2001, undici procure avevano messo fuorilegge, in base ai parametri europei, più di due terzi delle acque minerali italiane (200 marchi su 280) che non rispettavano gli obblighi di legge, indagando anche alcuni laboratori di analisi compiacenti con la lobby dei produttori.

Nel 2003 una serie di inchieste, di cui era titolare il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, riscontrarono in molte acque minerali la presenza di idrocarburi al benzene in quantità 10 volte superiore alla media.

L’allora Ministro della sanità Girolamo Sirchia, per salvare il business dell’acqua minerale, varò allora un decreto che innalzava la soglia di tolleranza per molti degli inquinanti trovati nelle minerali (tra i quali tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, idrocarburi) facendo rientrare nella legalità, come per magia, molte industrie dell’acqua imbottigliata.

Solo un anno dopo, in applicazione di una direttiva europea (la 2003/40), il ministero della sanità fu costretto a dichiarare finalmente fuori legge, a partire dal 1°gennaio 2005, tutte quelle acque minerali che superavano i limiti di quantità delle sostanze nocive previste per l’acqua potabile comune: ben 126 marchi di acque minerali risultarono non idonei.

Curiosamente, e senza che nessuno si scandalizzi, fanno però ancora bella mostra di se sugli scaffali dei supermercati, dato che nessuno (regioni, aziende sanitarie locali, ministeri) ha dato mandato ai Nas di imporne il ritiro.

Per completare il paradosso, con futili pretesti sanitari, a suo tempo il Ministro Marzano (Attività Produttive) ha sancito il divieto di vendere acqua in bicchiere nei pubblici esercizi, sostituita da acqua in confezioni sigillate mono-dose (con aumento dei costi, crescita dei rifiuti, e maggior traffico di automezzi che distribuiscono le bottiglie con aumento dell’inquinamento atmosferico).

Chi ci guadagna?

Pochi a danno di molti. I proprietari delle acque minerali pagano cifre irrisorie per le concessioni di prelievo delle acque e fanno guadagni elevatissimi.

Un gigantesco, inutile mercato sostenuto dai grandi business dell’industria alimentare, ma anche dalle grandi società di autotrasporto, dai produttori di plastica, dalle principali agenzie di pubblicità.

I camion che spostano acqua da un punto all’altro della penisola rappresentano uno dei grandi “affari” dell’autotrasporto: stiamo parlando di circa 600.000 viaggi su Tir.

Ma non è tutto: miliardi di contenitori di plastica devono poi essere smaltiti, aumentando notevolmente il mostruoso giro di soldi che ruota intorno all’acqua in bottiglia.

In Lombardia si vendono oltre due miliardi e mezzo di bottiglie in plastica all’anno, e solo 600 milioni di bottiglie in vetro, riciclabili; per lo smaltimento delle bottiglie di plastica, i costi a carico della collettività lombarda nel 2001 hanno superato i 26 milioni di Euro.

Questo significa che, per la Lombardia, i ricavi delle concessioni per lo sfruttamento delle fonti d’acqua coprono un ventesimo dei costi per lo smaltimento dei vuoti.

Può capitare, allora, che siamo convinti di comprare acqua e invece ci hanno venduto solo una bottiglia di plastica che contiene magari sostanze anche dannose.

L’ennesimo vantaggio per le industrie delle acque in bottiglia, contro i consumatori, gli esercenti, i cittadini, l’ambiente.

Chi ci perde

La rete idrica pubblica. Il business delle acque minerali è infatti il principale responsabile del “buco nell’acqua” denunciato dalla  rete nazionale in difesa dell’acqua.

Nulla si investe per migliorare e promuovere l’acqua degli acquedotti, comunque più controllata in generale e spesso qualitativamente migliore delle acque in bottiglia.

In questi anni le grandi Aziende Municipalizzate, ormai tutte quotate in Borsa, sono viste solo come strumento per fare cassa, e non c’è alcun progetto per rinnovare il servizio pubblico dell’acqua.

Bisognerebbe invece uscire dal mercato delle acque minerali, valorizzando il servizio idrico pubblico, tutelando fiumi e sorgenti, risparmiando acqua per gli usi non potabili.

Qualche soluzione e un po’ di terrorismo psicologico

Far pagare alle aziende private che sfruttano l’acqua, patrimonio di tutti e certezza per il futuro, il prelevato e non solo l’imbottigliato, abrogare le concessioni perpetue, adottare norme antitrust e disincentivare l’utilizzo delle bottiglie di plastica, regionalizzare la distribuzione diminuendo obbligatoriamente i chilometri per il trasporto, e il conseguente inquinamento atmosferico.

La mercificazione di una risorsa primaria della Terra, fondamentale come l’acqua, rappresenta uno dei mali più devastanti e insidiosi per l’umanità, e in questo, purtroppo, l’Italia è un esempio eclatante di intrecci tra affari leciti e illeciti, tra politica e business a qualsiasi costo.

A prescindere dalle “sanatorie” e dalla manipolazione dei parametri per la salute, la preoccupazione per la qualità delle acque minerali, praticamente esenti da controlli, resta: l’avvelenamento cronico, dovuto ad esposizione a lungo termine di arsenico attraverso le acque potabili, secondo l’Oms, causa cancro alla pelle, ai polmoni, alla vescica ed ai reni; mentre il manganese oltre la misura consentita, potrebbe incrementare la suscettibilità a infezioni polmonari.

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