Ed è proprio ciò che è accaduto quando il mio occhio si è imbattuto in questi concetti: “La rivoluzione in due passi” e “Due passi, servono per essere liberi. Il primo e il secondo”.
Il tutto mi è apparso familiare, affine a quella “filosofia del camminare” che è elemento caratterizzante del DNA della nostra testata; ho avuto così l’opportunità di leggere “Camminando” (edito da Lubrina) e di poter aver un’interessante scambio di opinioni ed impressioni con il suo autore, Davide Sapienza.
Nel corso della sua carriera l’autore si è occupato di molte tematiche, ma grande importanza ha ricoperto il mondo musicale, che probabilmente gli ha permesso di avere un approccio al mondo della natura diverso, ideando uno stile narrativo nuovo, che ha fatto di “Camminando” un manifesto letterario.
Massimo Clementi: Nel tuo libro “Camminando” parli della tua gioventù a Monza, delle tue esperienze come giornalista e scrittore musicale, qual è stata la svolta? C’è stato un momento o un evento particolare che ti ha fatto “rallentare il passo” della tua vita portandoti ad approfondire il tuo legame con la natura?
Davide Sapienza: Nascere e crescere in una cittadina “piccola” (anche nella mentalità) come Monza non è stato un vantaggio, in rapporto alle tematiche che mi hanno sempre affascinato. Ma a Monza ho vissuto sempre vicino al Parco, che è tra i più grandi in Europa, di quelli urbani e cintati: un ambiente che ha avuto una grande influenza sul mio modo di vivere lo spazio fisico.
Poi sin da piccolo, grazie ai miei genitori, le espressioni artistiche hanno sempre avuto una presenza fondamentale – musica, arte, letteratura, viaggi, cultura, lo sport praticato (mio padre era un pediatra e credeva molto nell’attività sportiva in quanto portatrice di valori) e soprattutto, libertà di pensiero.
Per qualche ragione la lettura e la scrittura hanno sempre esercitato un grosso fascino su di me, ma è stata la musica (anche con lo studio privato del pianoforte tra le scuole elementari e le scuole medie) a catturarmi profondamente. Con la lettura e lo sport mi ha segnato davvero tantissimo. Potrei dire che per me è tutta musica, inclusa la scrittura.
Ma da ragazzo invece di “rallentare il passo” io lo acceleravo, ero ingordo di vita, di sapere, di scoprire, di esplorare, di viaggiare. E ogni volta, gli spazi naturali avevano un effetto dirompente su di me e gli appunti che prendevo, le cose che scrivevo per me stesso.
Con la natura il legame c’è sempre stato: in questo senso i genitori, la scuola e chi ti educa (penso allo sport) hanno un ruolo fondamentale e non negoziabile. Credo sia stato naturale a 27 anni, dopo anni intensi di frequentazione di Milano e dei luoghi che in Europa mi avevano più affascinato, lasciare Monza e andare a vivere in montagna, sotto la Presolana.
M.C. – In alcuni passi di “Camminando” il focus della narrazione sembra essere incentrato sulle reazioni che l’ambiente circostante, vissuto con l’approccio lento ed attento del camminatore, provoca sul tuo animo. Quasi fosse un diario emotivo nel quale sono appuntati i mutamenti che la natura e l’ambiente provocano sulla coscienza e sulle percezioni umane. Ti sei concentrato su queste interazioni oppure è stata una scrittura istintiva?
D.S. – Camminando chiude il “viaggio letterario” iniziato con I Diari di Rubha Hunish nel 2004 (il libro fu scritto tra il 1997 e il 2002). Quel libro è un po’ il mio manifesto letterario, propone(va) angolazioni poco esplorate o inedite sul concetto di viaggio, in senso geografico e culturale, ma anche esplorativo e profondo – spirituale.
Il territorio è protagonista vivo e dialoga con chi viaggia, che sono io ma non solo io, direi più la parte inconscia di me che cerca un legame con “l’uomo unico” nel cammino umano dentro il tempo. Nell’incipit scrivevo, “voglio vedere la schiuma del mare come se fosse l’attimo della creazione” e questo perché ho la sensazione che non conta chi ha visto un luogo prima di te, ma il fatto che quel luogo non ti ha mai visto.
Dunque tra il “genius loci” e te nasce una conversazione, per dirla alla Barry Lopez, fondamentale per sintonizzare bene la nostra voce con quella del territorio geografico in quanto espressione di qualcosa che sfugge a ogni definizione ma che è nettamente percepito da chiunque ami muoversi, viaggiare, camminare, esplorare, osservare e vivere la natura.
Quando ho scritto “I Diari” avevo in mente questo. “Camminando” riprende una struttura narrativa inventata da me, dieci e più anni dopo, con intenzione: era tempo di chiudere un cerchio, di tornare alla partenza. Per capire cosa sarà domani.
M.C. – Nei tuoi scritti hai affrontato il tema “ del diritto della natura”, concetto che implica un profondo stravolgimento nell’ambito della filosofia del diritto nella quale, da sempre, è l’uomo l’unico vero soggetto meritevole di tutela. Basti pensare che lo stesso diritto ambientale vede quale principio costituzionale “di copertura” il diritto alla salute.. per l’appunto dell’uomo. Quale idea sta dietro a questo nuovo principio? È un cambiamento possibile?
D.S. – Se il cambiamento sarà possibile non lo so: ma so che questo cambiamento avviene ogni giorno in tantissimi esseri umani. Esiste una “quota” di consapevolezza che si sta alzando. Per vedere e incontrare queste persone bisogna ora guardare da un’altra parte, cambiare paradigma, abbandonare concetti obsoleti e dannosi per la vita della Comunità della Terra, che include anche noi esseri umani.
Il concetto di “diritti della natura” è semplice: senza di essi non possono esistere veramente i diritti umani e questo per la semplice ragione che noi esseri umani dipendiamo dalla natura.
Se un sofismo giuridico consente alle multinazionali di decidere che l’acqua non è un diritto fondamentale alla vita, ricordo ai CEO di quelle multinazionali che non sarà con il potere e il controllo che potranno, a lungo termine, avere sempre e comunque accesso all’acqua a spese della maggioranza dell’umanità e degli altri esseri viventi del pianeta.
É il principio più antico del mondo che l’uomo un tempo applicava per necessità comprendendo di non poter saccheggiare liberamente le risorse naturali. É per questo che sarebbe fondamentale iniziare ad avere una rappresentatività politica in grado di abbandonare lo schema dello struzzo e alzare lo sguardo, avere visioni lontane, non avere paura e rimettersi in cammino nella direzione giusta.
M.C. – Nella seconda parte di “Camminando” narri di un’esperienza urbana diversa, in una Milano attraversata a piedi, che ti ha permesso di riscoprirne aspetti inediti, di osservare la metropoli sotto un’altra luce, più a dimensione d’uomo. Da tempo la nostra testata si batte per uno sviluppo urbano che sia a misura d’uomo, convinti che una città accogliente per l’individuo possa mitigare il disagio sociale. Cosa pensi del rapporto tra città, uomo e cammino?
D.S. – La parte II di Camminando raccoglie una serie di saggi e reportage dedicati al camminare e l’ho intitolata “Camminare è un Canto Alto” come il reportage omonimo uscito sul Corriere della Sera di Bergamo a fine 2013 perché volevo far capire che la sezione “saggistica” del volume doveva comunque contenere un’aspirazione a qualcosa di “alto”.
Il racconto del trekking urbano che feci con Franco Michieli nel 2006 è nato per provare a dimostrare prima di tutto a me stesso che potevo trovare anche in città – una città che amo, avendola frequentata molto – quella conversazione che a me viene più facile in montagna, nei grandi spazi aperti, nelle campagne, nelle terre solitarie del grande nord.
Non a caso negli ultimi dieci anni si sente sempre più parlare di questo riavvicinamento intellettuale alla dimensione a misura d’uomo dentro la città. E anche in questo credo che occorre essere ottimisti.
Siamo passati dalla negazione del camminare di stampo autoritario (il G8 di Genova), all’idea che la città può davvero essere luogo di respiro e questo non potrà che farci bene: ma dobbiamo essere noi a camminare, “istigando” le istituzioni a prendersi carico di salvaguardare e promuovere gli spazi in cui gli esseri umani possono essere “de-motorizzati” per riprendere una dimensione più umana e naturale.
M.C. – Il camminare è probabilmente l’unica vera strada per vivere i luoghi che si attraversano, la lentezza è uno di quei valori da riscoprire, sia come modello culturale che come stile di vita. Ora vivi in montagna, lontano dal caos della città, questa tua scelta di vita deriva da una necessità di riappropriarti dei tuoi ritmi?
D.S. – Nel corso dei venticinque anni che ho trascorso qui in montagna, ho capito che aldilà delle motivazioni “intellettuali” di questa scelta, quella alla base di tutto era molto semplice: volevo semplicemente svegliarmi e vedere il cielo, sentire gli odori degli alberi portati dalla brezza, osservare la “grande montagna” che per me è la Presolana, una presenza che mi dà sicurezza.
Osservando “la montagna” so che nel suo ventre scorre l’acqua che bevo, osservando la linea della vegetazione, so dove muovo i miei passi quando voglio stare a conversare con il silenzio “alto”, osservando tutto quello che ho intorno immagino percorsi, che per me sono metafore di come affrontare la vita. Mi piace sapere di essere “periferico” perché è dalle zone “periferiche” che vengono, dentro e fuori di noi, le vere visioni nuove.
Per questa ragione devo dire che non riuscirei mai a tornare indietro. Vorrei provare a vivere in zone più a nord, ad esempio la zona boreale ha un effetto calmante enorme su di me. Quando ci vado vorrei fermarmi lì e diventare quell’immensità. Con la città ho fatto la pace e mi piace andarci, mi trovo bene – per qualche ora…
M.C. – Nei tuoi scritti rappresenti la società contemporanea come un grande meccanismo che ha trasformato l’uomo in un ingranaggio impersonale e distaccato. Ritieni che un riavvicinamento alla natura, alla terra, attraverso un ripopolamento di montagne, borghi, campagne possa contribuire a bloccare questo processo?
D.S. – Io credo che l’uomo non sia nato per essere un mero ingranaggio di una macchina produttiva, ma gli ultimi due secoli sono andati in questa direzione. Dobbiamo cercare un modo di ritrovare il ruolo dell’individuo tenendo anche conto del fatto che ora siamo sette miliardi di esseri umani su un pianeta sovraffollato.
Il lavoro da fare è principalmente spirituale e culturale, due aspetti che possono essere la leva per cambiare paradigma e vedere il mondo con occhi nuovi. Ovviamente, è evidente che non sarà possibile farlo a meno di non rendersi conto che siamo parte della natura, non padroni.
Le economie locali, piccole, potrebbero diventare una rete. Nel silenzio fragoroso dei media, che se ne occupano solo saltuariamente, qualcosa sta accadendo ed è molto interessante. La decrescita non significa andare verso la povertà, ma semplicemente capire che è inaccettabile essere chiamati “consumatori”. Preferisco essere chiamato “ladro”, è la stessa cosa.
Cosa significa “consumare” se non distruggere risorse non rinnovabili? In questo senso la “green economy” sta perdendo delle occasioni perché ha usato come paradigma lo stesso di sempre: il profitto fine a se stesso.
Cambia lo slogan, ma resta il contenuto. Sono favorevole – per fare un esempio – alle biomasse. Ma se per far funzionare una centralina nel mio paesino prendi la legna in Romania, ovviamente non è “green economy” ma follia ispirata al solo concetto del profitto.
M.C. – In “Camminare. La rivoluzione in due passi” scrivi “Camminare mi rende membro della Comunità Terra”. In un’epoca in cui gli ideali sociali, ideologici e religiosi stanno frammentando la società e in cui decenni di disprezzo per il territorio hanno portato a catastrofi “naturali”, la rivoluzione di cui parli, può aspirare a risolvere alcuni di questi problemi ricreando un’idea di “comunità terra”?
D.S. – Ne sono molto convinto perché incontrare persone che vivono queste percezioni e questi ideali mi capita sempre più di frequente.
Ma non solo alle mie camminate letterarie e agli incontri pubblici, ma soprattutto “in giro”, camminando e visitando luoghi, si percepisce una grande insoddisfazione che cerca di essere incanalata.
Non bisogna farsi ammaliare da falsi miti. Non esistono scorciatoie per rimettersi sul sentiero che dobbiamo tracciare puntando alle stelle, solcando ogni genere di difficoltà. Il cammino umano può, e soprattutto deve, convivere con quello degli altri componenti della comunità della Terra che sono gli altri animali, gli alberi, i fiumi, il mare.
Tutto ha un ruolo e solo l’interazione tra tutti noi potrà segnare il vero progresso che dobbiamo assolutamente perseguire. E farlo camminando, a tempi naturali, è davvero importante: il pensiero riesce a svilupparsi nel modo migliore e quindi a darci l’opportunità di capire come ridurre al minimo il nostro impatto sulla comunità della Terra e il bene comune.
Davide Sapienza
Camminando
Lubrina Editore, 2014
Bergamo
118 pagine
Euro 12,00