Polvere bianca con sfumature avorio, lungo la via delle grandi pietre
Nuvole bianche con riflessi avorio, immagini sfocate di un paesaggio quasi irriconoscibile di cui si distinguono a fatica i contorni.
Il vento modella, plasma, cambia leforme creando un continuo andirivieni di ombre, in un gioco di vedo non vedo che incupisce l’anima rendendo tutto tremendamente claustrofobico e opprimente, è il soffio potente del Buran, quello che sferza terra e aria rendendo tutto irreale. Sa essere duro l’inverno in montagna, lo conosceva bene Corrado Alvaro quell’inverno che ha voluto fermare in un’istantanea in bianco e nero, regalandolo alla storia.
Conosceva bene il significato dei colori lo scrittore di San Luca, la loro polivalenza, la loro forte impronta simbolica, il colore torbido dei torrenti che correvano e continuano a correre imperterriti verso il mare o quello bianco della neve che in un’attimo sa essere fonte di gioia, letta negli occhi spalancati dei bambini, l’attimo dopo sa farsi ricordo di disperazione e fatica, quella rimasta tatuata sulla pelle arsa dei pastori. Sono passate da poco le 7:40 del sei gennaio duemiladiciassette e raggiungere l’Aspromonte è cosa assai difficile, assai più difficile del solito, nonostante normalmente gli inverni concedano poche volte segnali di clemenza, nonostante si sia preparati ed attrezzati a dovere, di cose, mezzi e giuste conoscenze dei luoghi. La temperatura alla foce del Buonamico è vicina allo zero e la neve inizia dal mare regalando una visione insolita, di sconvolgente bellezza. Alfonso Picone Chiodo è una delle memorie storiche della Sezione Aspromonte del Club Alpino Italiano, uno che la montagna la respira avvertendone le vibrazioni, leggendone i messaggi, uno che la montagna ha imparato a conoscerla in un tempo lungo, tanto lungo da sapere bene che Lei non fa sconti, capace com’è di grandi abbracci materni che si alternano a tremendi ruggiti che solcano per sempre la mente.
Lo conosco da anni Alfonso, lo conobbi a Bova non ricordo bene in quale occasione, lo rividi poi tanto tempo fa in una pausa all’ombra di querce secolari al casello di San Giorgio a monte di San Luca ed è più o meno in coincidenza con quel periodo della mia vita che imparai a capire cosa volesse dire camminare in montagna per passione, imparai soprattutto a capire come di montagna ci si possa innamorare anche non essendoci nati. Fino ad un certo punto, non riuscii a cogliere altra forma di amore per la montagna che non fosse la mia, simile a quella dei tanti per i quali la montagna rappresenta il legame mai spezzato con la propria personale storia, quella familiare, fatta di affetti, ricordi, immagini ed emozioni. Mi ero sempre ripetuto che la montagna ti entra dentro perché è come la mamma, perché in essa identifichi il tuo passato e di essa conservi immagini che sono lo specchio di quelle delle tua vita, ed è tutto tremendamente vero, tutto così, ma certamente non solo così e l’ho imparato dopo.
Ho sentito spesso le parole di Alfonso, nella sua veste privata o in occasioni pubbliche e dalle sue parole, dal modo di leggere e riportare le sue personali emozioni, mi sono sempre più convinto che esistono amori necessari, che nascono per soddisfare bisogni irrinunciabili, gli stessi che per molti trovano sfogo nell’intimo dialogo con la natura. Ho telefonato qualche giorno addietro ad Alfonso dopo avere visto su Facebook qualche suo scatto di una recente uscita in montagna. “Vedere l’Aspromonte vestito di bianco fin dalla costa – mi dice al telefono – era un’occasione se non unica, certamente rara e poi oltretutto volevamo vedere Pietra Cappa. La difficoltà – mi confessa – e stata inizialmente quella di capire quale fosse in quelle condizioni la via d’accesso possibile. Ho chiamato alcuni amici a Natile che mi hanno sconsigliato dicendomi che la via di Natile Vecchio era bloccata già alcuni chilometri prima del paese. Chiamo allora a San Luca, dove mi dicono che la neve inizia dal paese e allora decidiamo di dirigerci da quella parte, risalendo lungo la strada principale che costeggia il Buonamico. San Luca è coperto di bianco anche se la neve non crea problemi alla circolazione, i problemi però iniziano appena a monte del centro abitato. Appena qualche tornante e siamo costretti a fermarci lasciando l’auto per proseguire a piedi seguendo il tracciato della strada rotabile.
Già dai cinquecento metri di quota siamo avvolti da tormente di neve, saliamo ancora per qualche chilometro ed intravediamo in mezzo alla bufera la sagoma di Pietra Castello, ancora un po’ di strada e avvolta in un paesaggio lunare spunta la mole di Pietra Cappa. Negli anni – prosegue Alfonso – non è stato inusuale vederne la cima innevata, ma integralmente vestita di bianco, comprese le pareti verticali, è stata una visione unica di cui godevamo davvero era la prima volta. A quel punto bisognava ripararsi e ci siamo diretti verso un ovile vicino che conoscevamo bene per esserci passati decine di volte nella stagione più calda”. È un un racconto lucido, una fotografia insolita di quella quella zona, quella offertami da Alfonso, un fermo immagine colorato di bianco ma non solo, perché al bianco si alternano i colori cangianti offerti dalla tempesta e quelli di un rosso acceso offerti dal cuore che si scalda quando nella solitudine e nel silenzio rotti solo dal sibilo del vento compare la sagoma di uno splendido esemplare di pastore maremmano che quasi sommerso dalla fitta coltre di neve corre in contro ad Alfonso, Patrizia, Filippo, Pietro e Mariarosaria accogliendoli e scortandoli prima fino all’ovile, poi fino al paese nel viaggio a ritroso.
Una volta giunti in paese, accompagnati gli ospiti a destinazione, il maremmano riguadagna la via di casa e la sua sagoma piano piano scompare di nuovo nella tormenta che continua ad imperversare. Mi piace leggere nella fiera accoglienza di quell’animale due metafore, la prima dell’appartenenza al territorio, l’altra del ciclo inestinguibile della natura che porge il suo saluto all’uomo con la certezza di un incontro che dovrà essere rinnovato. “In questi giorni – mi dice ancora Alfonso – guardando le scene che giungono dal Gran Sasso e dai paesi del centro Italia sepolti dalla neve, mi viene da riflettere sul concetto di resistenza e penso sempre più a cosa significhi vivere in montagna, sai Gianfranco ho imparato negli anni a capire la gente come voi che con la montagna convive da sempre perché ci vive, perché ci lavora, perché ci ha a che fare quotidianamente non per gioco o per passione. Sai Gianfranco, mentre guardavo la sagoma di Pietra Cappa confusa tra la polvere di neve sollevata dalla bufera, ho pensato a quanti l’avevano guardata prima di me con sentimenti diversi da quelli che provavo io in quel momento, ho pensato a quanta gente aveva pianto lacrime amare in quei luoghi, dove si era esaurita un’intera vita nel suo divenire, fino al suo compimento”.
Testo e foto di Gianfranco Marino