Era diventato, ormai, uno dei temi più discussi. L’infinito negoziato che vedeva ai due lati del tavolo delle trattative gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea, intenti a trovare l’intesa per la stipula di un trattato sul libero scambio tra le due aree economiche. Insomma nulla di nuovo all’orizzonte fino a quando, in un giorno di fine estate, il sig. Sigmar Gabriel, vice cancelliere e ministro dell’Economia tedesco, in un’intervista rilasciata alla rete ZDF laconico ha dichiarato che le trattative sul Ttip sono di fatto fallite.
Dichiarazione che sembrerebbe mettere la parola “fine” alle trattative su questo controverso accordo commerciale tra le due maggiori economie mondiali, il condizionale rimane però d’obbligo perché, a parte la presa di posizione tedesca, da nessun’altra voce ufficiale è giunta conferma o smentita a questa affermazione.
In ogni caso le parole pronunciate alla stampa dal Ministro hanno, di fatto, confermato i dubbi che si levavano da moltissime parti politiche ed economiche a livello europeo sulla opportunità che imprese e prodotti americani potessero “liberamente” entrare e competere sui mercati Europei. Il Ministro Sigmar Gabriel ha dichiarato: “i negoziati con gli Stati Uniti non sono riusciti, perché gli europei non possono capitolare alle richieste americane”.
Da queste parole si potrebbe evincere come il principale ostacolo alla trattativa fosse la grande diversità politica, economica e sociale di queste due aree economiche. Da una parte gli U.S.A. probabilmente favorevoli ad una totale libertà negli scambi lasciando che sia il libero mercato a trovare il giusto equilibrio, secondo una tradizione che ha le radici nella loro Costituzione. Dall’altra parte un Unione Europea che, da quando è nata, portava avanti una posizione decisamente più orientata verso il controllo e la tutela dei mercati, con Regolamenti e Direttiva spesso orientante a stabilire standard comuni e buone prassi.
Come potete leggere nel resto di questo articolo, che avevamo scritto una decina di giorni fa, erano molti i dubbi intorno alla bontà di questo trattato per l’Italia e per l’Unione Europea. Quindi accogliamo questa notizia con un certo favore, non tanto perché sia sbagliato cercare accordi di questo tipo, quanto perché un passo tanto importante meriterebbe alcuni passi intermedi di avvicinamento tra due economie e culture così diverse.
di Massimo Clementi
Siamo sempre più soli e deboli nella guerra contro il monopolio del cibo spazzatura, ma questo non significa dover rinunciare, senza combattere, a difendere il nostro diritto alla salute, prima ancora che alla buona alimentazione. Che pare, nelle logiche delle multinazionali, argomento insignificante se paragonato alle potenzialità del business alimentare senza qualità. È dei giorni scorsi l’ennesimo esempio di arroganza dei “poteri forti” del commercio mondiale contro il diritto dei cittadini di pretendere, anche se sempre più flebilmente, prodotti alimentari sani e genuini. E, ancor prima, il rispetto delle specificità e delle culture locali.
Il rifiuto del Sindaco di Firenze di accettare supinamente l’apertura dell’ennesimo McDonald’s nel cuore di una delle più affascinanti e preziose città del mondo, esattamente di fronte al Duomo, è stata interpretata dal colosso del fast food americano come un’intollerabile offesa al “diritto di fare impresa”!
Ma esiste il diritto di qualunque cittadino, di qualsiasi nazionalità, di non subire l’inquinamento della più becera globalizzazione almeno al cospetto di opere dichiarate “Patrimonio dell’Umanità”?
E se esiste, come può essere esercitato per tentare una estrema difesa contro la prepotenza di chi pensa solo all’interesse economico anche quando mette a rischio la salute e la qualità della vita dei singoli?
Il Sindaco fiorentino, usando la logica elementare, ha affermato, sinteticamente, che è nel diritto di qualunque azienda chiedere di aprire un suo punto vendita, ed è altrettanto legittimo per un amministratore, responsabile pro tempore del pubblico patrimonio, negare l’assenso qualora l’attività proposta non sia in armonia con il luogo e il valore culturale che questo rappresenta, senza che ciò si configuri come una prevaricazione di non meglio specificati diritti commerciali.
Peraltro, oltre alla presa di posizione negativa del Sindaco, il rifiuto all’apertura di un McDonald’s davanti al capolavoro rinascimentale di Santa Maria del Fiore è stato sancito da un’apposita commissione Unesco, con le seguenti motivazioni: “L’attività prevalente riguarda la vendita di panini della gamma classica dell’azienda McDonald’s accompagnata da patatine fritte (tipologia di somministrazione assimilabile pienamente alla definizione di fast food)”; nella domanda presentata si indica espressamente che saranno utilizzati prodotti surgelati (hamburger, cotolette, bocconcini di pollo, patate, filetti di pesce, etc) che, per la loro tipologia, rappresentano ampiamente la base per la preparazione della maggioranza dei prodotti venduti.
I prodotti italiani certificati (DOP e IGP) sono utilizzati quasi esclusivamente nei prodotti stagionali (quindi non sempre presenti nell’assortimento); dalla documentazione presentata non si evidenza in modo oggettivo il peso dei prodotti tipici indicati sulla gamma complessiva dei prodotti offerti alla somministrazione; l’incidenza dei prodotti stagionali e dell’angolo toscano è apprezzabile, ma evidentemente non “prevalente”; e infine sul progetto architettonico, vetrine e insegne, la commissione conferma l’impressione negativa già verbalizzata dalla commissione nelle riunioni del 9 e del 14 giugno riguardo l’impatto del logo sulla facciata prospiciente piazza Duomo”.
Esiste ancora, anche se sempre più sporadicamente, quel sottile pensiero positivo chiamato “buon senso”? Valutando quanto accaduto a Firenze si potrebbe pensare affermativamente, ma la guerra del “diritto a fare business” calpestando qualunque principio è solo all’inizio… e il rifiuto del TTIP è la prossima linea di difesa su cui ogni cittadino di buon senso dovrebbe appostarsi per tentare di fermare l’invasione incontrollata di tale “diritto”.
Innanzitutto, cos’è il “Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti” (Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP)? Nella sintesi criptica degli acronimi, è un accordo di libero scambio che l’Unione Europea è chiamata a concludere con gli Stati Uniti.
Questa trattativa, con la scusa di un’armonizzazione delle normative sul libero commercio, antepone il mercato e gli interessi privati a quelli della collettività e apre ad una riduzione degli standard qualitativi, sociali e ambientali. Le trattative sul TTIP si sono svolte finora a porte chiuse: Parlamenti nazionali e cittadini non sono adeguatamente informati su normative che potrebbero invece incidere, anche pesantemente, sui loro diritti. Analizziamone insieme alcuni.
Per capire meglio le conseguenze dell’approvazione del TTIP, è utile elencare alcuni numeri e dati: l’Italia rappresenta lo 0,20% delle terre emerse, eppure possiede 7.300 specie vegetali commestibili (record europeo, in seconda posizione si trova l’Inghilterra con 2.100 specie); nel nostro paese sono presenti 58.000 specie animali (ed è un altro record europeo, in seconda posizione si trova la Francia con 20.000 specie); possediamo 1.200 vitigni autoctoni sui 2.000 circa a livello planetario (seconda sempre la Francia con 222) e 1.000 diversi tipi di mele (in tutta Europa ce ne sono 1.200). Nelle nostre campagne sono presenti 140 varietà di grano duro, mentre gli Stati Uniti, maggiori produttori del Mondo, ne posseggono 6.
Per molti esperti ed economisti, la perdita delle peculiarità del nostro patrimonio agroalimentare è il rischio più eclatante in caso di approvazione di questo accordo transcontinentale. Infatti, la prima conseguenza del trattato sarebbe la scomparsa, di fatto, dei prodotti DOP in Europa, che vedono l’Italia in posizione di vertice assoluto. E contemporaneamente, l’arrivo sui banchi dei supermercati europei delle produzioni alimentari nordamericane, considerate il peggior cibo industriale del pianeta: polli trattati con varechina, frutta e verdura “dipinta” con ogni genere di sostanza chimica, formaggi fatti con cellulosa di legno, e chi più ne ha più ne metta…
Ma i rischi non si fermano alla qualità del cibo, intaccando pericolosamente anche le salvaguardie della salute: nel nostro paese, con parametri più restrittivi anche rispetto al resto dell’Europa, c’è il divieto di vendita di prodotti modificati geneticamente, i famigerati OGM, oltre al divieto di commercializzare carni trattate con ormoni e steroidi.
Una prima, immediata ripercussione a seguito dell’approvazione del TTIP riguarderebbe le norme antisofisticazione, che dovrebbero essere omologate a quelle presenti negli USA… un dato per tutti: in Europa le sostanze chimiche sotto controllo per fini di alimentazione umana sono 143.000, negli Stati Uniti sono 6!
E ancora: rispettando il principio di precauzione, in Europa prima di vendere un alimento bisogna dimostrare che non faccia male; negli Stati Uniti qualunque cosa può essere messa in commercio, e poi può essere successivamente vietata solo se qualcuno subisce dei danni provati.
I rischi del TTIP per l’agricoltura europea, redatto da Friends of the Earth Europe e pubblicato in Italia in collaborazione con l’associazione Fairwatch, mette in luce i danni che l’applicazione del Trattato transatlantico tra Stati Uniti e Ue potrebbe apportare al commercio di cibo e, quindi, alla salute dei cittadini della Comunità Europea. Secondo gli studi analizzati nel report, mentre il contributo dell’agricoltura al Pil europeo potrebbe diminuire dello 0,8%, con conseguente perdita di posti di lavoro, quello statunitense aumenterebbe dell’1,9%.
Questa ristrutturazione del mercato avrebbe effetti anche sulla gestione del territorio e sulle caratteristiche del tessuto produttivo agricolo europeo. Nella relazione, la coordinatrice del rapporto per l’Italia Monica Di Sisto evidenzia che “il TTIP porterà molti agricoltori d’Europa a confrontarsi con una maggiore concorrenza e prezzi più bassi da parte dei competitor Usa, minacciando le aziende agricole di tutta l’area dell’Unione”.
Qualora il TTIP venga ratificato, i pregiati alimenti a denominazione d’origine protetta dell’area europea rischiano di essere confusi con prodotti analoghi, prodotti anche negli Usa e non nei luoghi d’origine, realizzati con norme igieniche più blande di quelle vigenti oggi in Ue in materia di cibo.
La lista proposta dal TTIP di prodotti Dop e Doc europei da tutelare supera di poco il numero di 200 marchi, mentre in Unione Europea se ne preservano oltre 1500. Di fatto, la Denominazione d’Origine Protetta perderà la propria specificità. Gli Stati Uniti producono già, nei loro confini, alimenti assai vagamente simili a quelli europei, ma con l’approvazione del TTIP essi potranno circolare liberamente anche in UE e confondersi con gli originali. A scapito non soltanto della questione etica del cibo protetto, ma soprattutto del rispetto e della tutela della salute dei consumatori.
Per quanto riguarda le carni, il pollame e i prodotti caseari, gli studi nel Rapporto prevedono che, favoriti dal prezzo molto più conveniente, ci saranno aumenti significativi delle importazioni di carne bovina statunitense verso l’Europa. Gli allevamenti di manzo Ue, che producono carne controllata da rigide regole sanitarie, potrebbero essere messi a rischio. Lo stesso trattamento verrebbe riservato a latte e formaggi: in questo settore le esportazioni Usa potrebbero aumentare fino a 5,4 miliardi di dollari in più, mentre quelle europee verso gli Stati Uniti al massimo di 3,7 miliardi di dollari.
Riguardo le carni bianche, il report riferisce che, al momento, non vi è un commercio elevato di prodotti avicoli o uova tra Stati Uniti e UE, ma gli Usa vorrebbero utilizzare il TTIP per aggredire il mercato europeo anche in questo settore, con il già citato rischio di abbattere gli standard di sicurezza alimentare della UE.
La produzione di carne di maiale europea, infine, è attualmente il doppio di quella degli Stati Uniti e ha regole severe sul benessere degli animali. La produzione suina americana è però molto più conveniente, come costo, rispetto a quella nostrana, ma con una “piccola” differenza: tra il 60% e l’80% dei suini negli Usa è trattato con ractopamina, un ormone vietato nella zona europea, perché danneggia il sistema endocrino umano. Con l’approvazione del TTIP, le carni di maiale statunitensi trattate con ormoni invaderebbero i nostri banchi alimentari confondendosi con le nostre.
È normale, nei supermarket americani, trovare buste di “parmesan” prodotto con cellulosa (segatura di legno) aromatizzata da sostanze chimiche, “mozzarelle” che non hanno mai visto una goccia di latte, frutta “aromatizzata” e ogni genere di prodotto “tipico” nostrano che, pur rigorosamente contraffatto, sbandiera il nostro tricolore; il “Made in Italy”, nel settore alimentare, è un motore pubblicitario formidabile, poco importa se il 90% dei prodotti commercializzati sono autentiche… bufale!
Ma se passa il TTIP, queste autentiche porcherie alimentari potranno arrivare, senza controlli e censure, anche sulle tavole europee ed italiane: tonnellate di formaggi, carni, salumi, cereali e latte in polvere, olio e vino di infima qualità, che, grazie a prezzi stracciati rispetto alle nostre produzioni, potrebbero mettere in crisi medi e piccoli produttori locali. Con evidenti conseguenze anche sull’occupazione e sullo sviluppo delle attività agricole di qualità. È proprio questo il futuro che vogliamo?
Basta scorrere i dati e i risultati del report di Friends of the Earth Europe per capire che questa pretesa liberalizzazione del commercio tra UE e Stati Uniti è una trappola mortale per l’economia agroalimentare europea, e in particolare per quella italiana, detentrice delle massime eccellenze planetarie nel settore.
La tesi dei favorevoli al trattato è che questo svilupperebbe anche le nostre esportazioni, ma secondo le ricerche riportate nel dossier, il TTIP favorirebbe solo il bestiame d’allevamento statunitense, così come i fiori, la maggior parte delle verdure, la frutta fresca e secca, gli olii vegetali, che potrebbero liberamente circolare nei paesi UE senza pagare alcun dazio. È vero che l’Europa chiede che nel trattato venga specificata la tutela di alcuni alimenti del vecchio continente, ma non è detto che gli Stati Uniti acconsentano, segnala il rapporto. Il che comporterebbe la perdita di specificità e di sicurezza che contraddistingue il cibo UE, in particolare quello italiano.
Altro cavallo di battaglia dei sostenitori del TTIP è il valore degli Usa come partner commerciale nelle esportazioni dell’agrifood italiano.
La Sace (Società di Cassa Depositi e Prestiti) assicura le esportazioni private e, seguendo i risultati di un suo rapporto presentato a Expo 2015, a questa affermazione ribatte in modo negativo: gli Stati Uniti sono un mercato maturo, già aperto all’export italiano di settore, ma molto più influenti per la nostra economia sono Germania, Inghilterra e l’area dei Paesi arabi. Negli ultimi dieci anni, l’export italiano verso l’UE è cresciuto di circa il 70%, ma il suo valore verrebbe messo in difficoltà dall’arrivo, sui banchi alimentari europei, di prodotti contraffatti Usa con lontane, e fasulle, similitudini coi nostri prodotti di eccellenza.
Anche l’idea che l’apertura dei mercati d’oltreoceano sia un’opportunità per le nostre produzioni di eccellenza, realizzate da piccole e medie aziende agroalimentari italiane, non corrisponde ai dati reali. Infatti, gran parte delle imprese dell’agrifood italiano esporta pochissimo della loro produzione: soltanto lo 0,7% delle Pmi (Piccole e medie imprese) europee esporta verso gli Stati Uniti e il valore di beni e servizi esportati è inferiore al 2% del valore aggiunto prodotto dalle Pmi UE nel loro complesso. Il comparto alimentare italiano, spiega il Sace, conta circa 58.000 imprese.
Un’azienda su 20 vanta dimensioni da grande impresa, contribuendo a 1/3 del valore aggiunto del settore ma, nella metà dei casi, è a controllo estero. Le imprese alimentari che esportano sono meno del 12%, con un fatturato medio verso l’estero pari a circa 1/7 delle loro vendite. I restanti 6/7 vengono utilizzati dal mercato interno, perciò, anche in caso di liberalizzazione, la quota di produzioni di qualità esportabili sarebbe minima e non influente nelle valutazioni finali.
Ma il rischio peggiore, in termini di garanzie, lo corrono proprio i consumatori italiani ed europei: la liberalizzazione non apporterebbe alcun vantaggio in termini di aumento della scelta per i consumatori, mentre invece ne risentirebbero, e molto, le attuali regole del commercio agroalimentare che in Europa, e in Italia in particolare, attualmente proteggono la qualità e sicurezza dei prodotti. Con il TTIP, soltanto 41 dei 269 marchi DOP italiani attualmente protetti dalla UE continuerebbero ad essere tutelati, per tutti gli altri si attuerebbe, di fatto, ogni genere di contraffazione con la possibilità di circolare, liberamente e legalmente, in Europa e negli Stati Uniti… veramente un ottimo affare per il nostro comparto agroalimentare, che ha puntato tutte le sue carte sulla Qualità!
La liberalizzazione del mercato alimentare è il pericolo più eclatante, ma non l’unico, per le istituzioni europee. Il trattato apre la strada anche a molte altre “mediazioni” in materia di Ambiente e biodiversità, energia e clima, liberalizzazione di sostanze chimiche, per finire con la regolamentazione dei rapporti che regolano le attività delle multinazionali delle aziende americane.
Con l’approvazione del TTIP si attiverebbe il Consiglio per la Cooperazione Regolativa (RCC), nei fatti un organismo chiamato a fissare gli standard transatlantici di libero scambio, scavalcando di fatto i Parlamenti e sottraendo al controllo democratico decisioni fondamentali per i cittadini.
Ma la minaccia più subdola è costituita dall’Investor-State Dispute Settlement (ISDS), organo di arbitrato internazionale, costituito da arbitri scelti con metodi extragiudiziali, chiamato a decidere sulle controversie fra investitori privati e Paesi aderenti: le multinazionali potrebbero accusare gli Stati di intralciare il libero mercato e i cittadini rischierebbero di dover pagare di tasca propria! Nella pratica, l’ISDS è una potentissima arma in mano alle multinazionali contro la sovranità degli Stati, poiché, sfruttando questo strumento, una multinazionale potrà denunciare uno Stato se questo fa delle leggi che danneggiano i suoi interessi. Credo non sia necessario aggiungere altre parole!