Uomini e Montagne, un legame da difendere

18 marzo 2020 - 10:14

Il rapporto tra l’uomo e la montagna, custodisce la radice della nostra esistenza

Emergendo dall’inconscio, si fa sempre più nitido il mio DNA meticcio.
Incrocio tra quei barbari e bellicosi popoli Cimbri che, nelle loro migrazioni da nord alla ricerca di terre buone, già malinconici delle fredde praterie dello Jutland, si fermarono sul grande altipiano tra  Trentino e Veneto, preferendo i boschi e la montagna e inverni di neve, alla facile esistenza delle pianure. E altri guerrieri dagli occhi affilati, venuti da un oriente molto più lontano per predare le leggendarie ricchezze dell’Impero di Roma, che nelle impervie Valli del Natisone trovarono rifugio e nuove esistenze.

In entrambi, catalizzante era lo spirito della montagna, uguale a se stessa in ogni angolo di mondo.

Quello spirito che, insieme alla mia indole spietatamente nomade e inquieta, tradisce sempre più chiaramente le mie origini. Radicate nell’anima, ancor prima che nell’esperienza.Per questo, senza premeditazioni, ho trovato normale dedicare le mie energie e i miei pensieri a raccontare le montagne e gli uomini che le vivono.  
Nelle mie fantasie di bambino la Montagna era l’Avventura, l’ignoto. E quando riuscivo a eludere la sorveglianza della mamma, mi tuffavo nel mistero della foresta che abbracciava per tre quarti la casa dalle imposte rosse, sul limite di una grande radura scoscesa. Scolpita nella memoria, l’emozione della prima notte vissuta nella foresta. Il tramonto, ritmato dai colpi lontani di un picchio, aveva sciolto i contorni del mondo in un’unica, impenetrabile macchia scura. Raggomitolato come un animale nel vecchio sacco a pelo militare, avevo inutilmente sperato che la luce incerta del crepuscolo rimanesse a proteggermi dalle mie paure. L’improvviso, assoluto silenzio del buio mi terrorizzava. Per un istante solo il rumore sommesso del mio respiro aveva riempito l’aria, poi mille voci avevano parlato. Mi ero costretto ad ascoltare. Distinguevo i linguaggi diversi della notte, del vento, degli alberi, delle creature della montagna.

Mi sforzavo di dare identità ai rumori che mi spaventavano. E le paure si erano perse nel buio. Mi sentivo parte di un mondo che amavo e desideravo possedere. O esserne posseduto. Il fischio malinconico di una civetta mi aveva tenuto compagnia fin quando il sonno aveva rubato i miei pensieri.  Avevo dodici anni. Cresciuto, ho cercato su montagne sempre più lontane, e sui visi degli uomini di quelle montagne, le tracce del mio passato. Inseguendo le mie fantasie ho incontrato gente vivere aggrappata ai giganti di pietra e ghiaccio, rubando la sopravivvenza agli umori della natura.

Mi sono infinite volte stupito, scoprendo incredibili analogie e somiglianze tra i diversi popoli delle montagne, a dispetto di lontananze fisiche incolmabili. Nei gesti e nei modi di lavorare una terra avara, nei vestiti, nelle leggende, nelle tradizioni, nella spiritualità e nei riti del vivere quotidiano.  Utensili, adoperati dai nomadi del Tibet o dai campesinos delle Ande, identici tra loro e tanto simili a quelli che ancora i nostri nonni usavano nelle baite alpine, tradiscono una devozione comune, spontanea, alla magia della pietra e del legno.

Il “nan” che ho mangiato nelle capanne dei Ladakhi, le “tortillas” boliviane o il “chapati” degli Sherpa nepalesi,  hanno tutti lo stesso sapore. Di pane. Quel pane povero, di segale e grano saraceno, che viene ancora cotto, ogni tanto, nei masi altoatesini, e poi messo a seccare in madie di legno. Dopo trent’anni di vagabondaggi sulle montagne di tutto il mondo, ho, chiarissima, una certezza.

Gli uomini delle montagne si assomigliano. Tutti. In qualsiasi sperduto angolo di mondo vivano.

E hanno in comune le radici di una cultura che, probabilmente, è l’ultima testimonianza di tradizioni autentiche e genuine, che traggono la propria esperienza da un passato in armonia tra uomo e natura.
La cultura della montagna è l’ultimo cordone ombelicale che ci lega a un passato ancora vivo e concreto, capace di reinsegnarci il rispetto per noi stessi e per le priorità della vita; una tradizione capace di attualizzare i concetti di comunità e solidarietà; ma anche, soprattutto, di riportare in equilibrio il rapporto tra uomo e ambiente.
Questa cultura è in procinto di estinguersi, svanendo, giorno dopo giorno, nell’oblio. Rimpiazzata dall’effimera mitologia del “progresso”. Se ne stanno andando per sempre emozioni, suggestioni, profumi e sapori dentro i quali è scritta la nostra storia. Non lasciamo che accada.  

L’Opinione del Direttore:
Michele Dalla Palma

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