Le sconfinate steppe del nord, le bionde dune del deserto, laghi scintillanti, ghiacciai con vette di oltre 4.000 metri spazzate dalla furia del vento, accarezzate dal volo degli uccelli, mentre rare e preziose stelle alpine, iris e papaveri colorano la magnifica natura selvaggia dell’Altai.
Un paesaggio incontaminato, tempestato di puntini bianchi; sono le yurte dei nomadi kazaki che, negli anni ’40 del Novecento, si spostarono in Mongolia dal vicino Kazakistan per pascolare le loro greggi. In seguito si stabilirono qui definitivamente, e oggi i kazaki sono il 95% della popolazione di questo territorio, unica etnia di religione musulmana al mondo dove le donne hanno gli stessi diritti degli uomini.
L’ospitalità per questa gente non è un dovere o una convenienza per ottenere qualcosa in cambio, bensì uno stile di vita, e una notte passata nelle loro yurte è un’esperienza indimenticabile. In questa regione della Mongolia il turismo è molto limitato, ostacolato dalle pessime condizioni delle vie di accesso e da un clima tremendo dove, per sette mesi all’anno, il vento e il gelo sono i veri padroni dello spazio, facendo scendere la temperatura fino a 50 gradi sotto zero. Dopo cinque giorni di piste impossibili con la nostra amica-guida Nyamaa e l’autista Tseren a bordo della sua jeep antidiluviana, un vero rudere di fabbricazione russa degli anni ’80, arriviamo ai piedi della possente catena dell’Altai e sotto le lame di ghiaccio del Tavan Bogi, a ridosso del confine russo e kazako, troviamo ospitalità presso una famiglia nomade.
Quando si entra nelle yurte si deve stare attenti a non appoggiare il piede sulla soglia per non indispettire gli spiriti malevoli. Appena entrati ci troviamo fra le mani una ciotola di latte di giumenta, come segno di benvenuto, che va presa con tutte e due le mani. Il latte è il cibo bianco, quello che i nomadi offrono per primo ai visitatori perché credono che bere latte e i suoi derivati prolunghi la vita.
Il giorno della competizione è vicino e nelle yurte c’è un gran fermento. In breve tempo il piccolo tavolo si riempie di cose: l’arul, il formaggio secco da sgranocchiare, i dolcetti ai cereali, i biscotti allo strutto e il liquore tradizionale, l’airag, a bassa gradazione alcolica, ricavato dalla fermentazione del latte di giumenta. La cosa più importante è non rifiutare nulla, perché sarebbe una grossa offesa all’ospitalità dei padroni di casa.
La yurta è la casa dei kazaki; bianca, di forma circolare, è un piccolo nido che si monta e si smonta con facilità, l’ideale per un popolo nomade. La parete è formata da una grata in legno di salice, rivestita di feltro e pelli impermeabili che la rendono immune al freddo. I pali di sostegno portano alla sommità della yurta dove, da una calotta a cielo aperto, esce il tubo del focolare che si trova al centro dell’abitazione e che serve per scaldare e cucinare. Ai lati ci sono le cassapanche e i letti, sui quali stramazziamo stanchi morti trovandoci sopra a qualcosa di morbido e peloso che tenta disperatamente di divincolarsi. Un miagolio furente e un micetto bianco dagli occhi blu sfreccia via ma… tornerà!
I padroni di casa ci invitano a sedere sui grandi tappeti di feltro e ci servono una zuppa di carne e verdure chiamata chorba il cui invitante profumo fa tornare il micio, e la serata trascorre piacevolmente con Nyamaa che fa da interprete traducendo le nostre domande ad Alash, il capo famiglia, che da lungo tempo si dedica alla caccia con le aquile, il più maestoso degli uccelli predatori.
Questa attività viene praticata da oltre 2000 anni dai nomadi kazaki ed una volta all’anno i cacciatori, provenienti dagli angoli più sperduti dell’Altai, danno vita ad un grande raduno dove si sfidano in prove di destrezza con i loro rapaci. In passato la caccia era praticata come simbolo di potere.
In Mongolia, racconta Marco Polo, il Kublai Khan era solito tornare da Kambaluk, l’attuale Pechino, insieme a 10.000 falconieri per cacciare, con aquile reali, selvaggina come lepri, volpi e lupi. Le aquile sono le vere “primedonne” della Mongolia ma, purtroppo, sono destinate a rimanere single per tutta la vita. È solo la femmina, infatti, adatta all’addestramento per la caccia e viene prelevata dai nidi in tenera età.
L’addestramento consiste nell’abituare l’aquila ad afferrare la pelle di una volpe che, legata ad una corda, viene trascinata dal cacciatore; se il rapace riuscirà ad afferrare saldamente la preda, verrà premiato con un pezzo di carne.
Il cacciatore addestra numerose aquile nel corso della sua vita, che possono vivere e cacciare per circa 30 anni, e quando ne muore una, la seppellisce come fosse un membro della famiglia. È un compito molto difficile addestrare questi animali e i proprietari sono orgogliosi di mostrare agli spettatori il loro valore.
Usciamo dalla yurta mentre il figlio del capo famiglia sta rientrando con un immenso gregge di pecore. Le donne si mettono a mungere sfruttando la luce della luna che, come un enorme faro, illumina a giorno, mentre il micetto dagli occhi blu saltella portando lo scompiglio fra gli ovini, perché cerca di usare le loro code come liane.
Guardando le alte vette di ghiaccio ci chiediamo se lo yeti, o almas, come lo chiamano qui, e che molti pastori giurano di aver incontrato, esiste veramente o è solo fantasia. Ma se lo yeti è, forse, una leggenda, il rarissimo leopardo bianco delle nevi è invece una realtà e la catena dell’Altai rappresenta uno degli ultimi luoghi al mondo ad essere calpestato da questo magnifico e rarissimo felino.
È molto freddo e il termometro scende a meno 15 gradi. Torniamo nella yurta e aiutiamo le donne che stanno stendendo a terra i tappeti sui quali metteranno le coperte creando un letto caldo e morbido; sarà il giaciglio di Nyamaa, dell’autista ed anche il loro visto che i letti li hanno lasciati a noi.
Il letto di fianco al nostro è quello degli sposi: il figlio di Alash si è sposato il mese scorso e, con la giovane moglie, si tolgono gli stivali e s’infilano nell’alcova abbassando le tende dai grandi fiori rossi. Il massimo della privacy visto che, normalmente, in questa yurta ci dormono in otto.
Passiamo una notte abbastanza tranquilla, col micetto che entra ed esce dal nostro sacco a pelo ma, ben prima dell’alba, Alash inizia a prepararsi infilandosi il lungo cappotto nero stretto in vita da una cintura d’argento. Si mette poi il cappello di seta rosso, foderato di pelle di volpe e, calzati gli stivali, con la punta verso l’alto per non ferire la terra e i piccoli animali che la popolano, saluta la famiglia, salta sul cavallo e, insieme alla sua fidata aquila, se ne và scomparendo in una nuvola di polvere. Alash cavalcherà per giorni sostando per la notte nelle yurte che incontrerà lungo il cammino, attraversando vallate che sembrano non avere fine, costeggiando laghi salati che si presentano come mari improvvisi in un silenzio irreale spezzato solo dal rumore del vento che sferza la Mongolia ogni giorno, un luogo dove il tempo si è fermato all’epoca di Gengis Khan.
Alle porte di Ulgii, il paese che ospita il Festival, i cacciatori s’incontrano e proseguono insieme. Un fitto polverone annuncia il loro arrivo e, tra i bagliori, si intravedono spennellate di cappelli rossi, pelli di volpi, lupi, piume di aquile che avanzano fiere appollaiate sul braccio del loro padrone. Un vero tripudio di colori che si mescola ai turchesi e all’argento intarsiato delle selle e delle briglie.
Arrivati sulla piazza principale vengono accolti con una cerimonia ufficiale: centinaia di bimbi vocianti rendono onore a cacciatori e aquile accogliendoli con fiori e canti, dando vita ad una parata spettacolare. Tutto si conclude con una galoppata di ringraziamento che proseguirà per altri 20 chilometri fino a raggiungere un’ampia vallata, il luogo dove si svolgerà la gara. I cacciatori, tutti in fila sui loro destrieri, aspettano il turno per registrarsi presso il banco della giuria.
Un addetto leggerà i loro nomi con l’aiuto di un microfono che funziona solo a tratti, rivolgendosi agli spettatori che non riusciranno a capire nulla. Le aquile sono impazienti, aspettano con ansia di essere liberate dal cappuccio di cuoio che impedisce loro di vedere. Una protezione, un modo per non essere disturbati da ciò che accade intorno e che viene tolto soltanto al momento della caccia. Gli occhi sono il punto forte dell’aquila. Grandi, direzionati frontalmente, permettono un campo visivo di 300 gradi e la sua vista sembra sia otto volte più acuta di quella di un uomo. Occhi pronti ad affrontare la luce violenta del sole e capaci di reperire il minimo movimento in un luogo immenso.
Ma… ecco che ha inizio la manifestazione! Il cacciatore toglie il cappuccio all’aquila e si guardano negli occhi instaurando un rapporto intimo, speciale, fatto di sguardi d’intesa, di carezze e d’amore a tal punto che il cacciatore intona, con estrema dolcezza, canzoni create apposta per lei.
Nella prima gara l’aquila viene liberata sulla sommità di una parete rocciosa mentre il cacciatore, alla base della montagna, fa un richiamo per invitarla a volare e a posarsi sul suo braccio.
Ovviamente il cacciatore indossa uno spesso guanto di feltro che arriva quasi all’avambraccio che serve a proteggere l’arto superiore dagli artigli del rapace.
Nella seconda gara l’aquila deve scendere dalla rupe ed afferrare una pelle di volpe che il cacciatore trascina legata ad una corda posta dietro la sella. Quando l’aquila caccia con il suo padrone non gli porta mai la preda ma la immobilizza a terra e così, anche ora, una volta afferrata la pelle di volpe, il cacciatore deve liberare la preda dagli artigli del rapace. Lunghi e affilati, con il quarto dito, opposto agli altri, munito di un unghia più lunga che trafigge la preda, sono armi micidiali.
Un’altra competizione a cui partecipano i kazaki qui a Ulgii è il kukbar, una gara equestre tradizionale che impegna i cavalieri in prove di abilità e coraggio coinvolgendo il pubblico che vi assiste entusiasta. Nel Kukbar i cavalieri, dall’alto dei loro destrieri, lottano per impossessarsi di una pelle di capra.
Ci sono poi le corse a cavallo, il tiro con l’arco e, alla fine del secondo giorno, la premiazione. Sono tutti eccitati, aquile e cacciatori, e tutti ricevono un premio e un attestato, ma solo uno, quello con l’aquila più veloce e più abile, sarà il vincitore.
Dall’altoparlante gracchiante, alla fine, esce un nome ed è quello che riceverà la coppa d’oro e una notevole somma di denaro.
Non è Alash, lui ha già vinto lo scorso anno ed è soddisfatto comunque. La festa è finita, cacciatori e aquile fanno ritorno alle loro yurte e per un altro anno non scenderanno in paese; piano piano, così come sono venuti, se ne vanno scomparendo nel nulla.
Anche per noi è tempo di tornare… è stato un viaggio duro ma bellissimo perché, oltre all’inimmaginabile bellezza dei luoghi e all’ospitalità e gentilezza della gente, abbiamo avuto la fortuna di avere vicino un’ottima guida-amica che ha cercato di aiutarci ed agevolarci in ogni modo. Bair-là e Bai-tè, grazie e arrivederci, Nyamaa!