Il Regno di Guge, un angolo all’estremo occidente del Tibet. Un angolo ai confini del mondo: valli aride su cui si ergono imponenti monti, come muri di terra che sembrano scolpiti. Una cittadella scavata nella roccia, monti innevati in lontananza che paiono sospesi sotto il blu del cielo. Come sospeso sembra essere il tempo.
Niente dà l’impressione che stia trascorrendo, che stia succedendo qualcosa, sembra di muoversi dentro un’immagine. Sabbia e rocce scricchiolano sotto le suole degli scarponi, non c’è nessuno, non c’è niente. A parte la maestosità e la desolazione di uno spettacolo surreale e sfuggevole e la potenza della terra che cresce, che si modifica, che si scolpisce, che si crea e che si distrugge. Senza curarsi di niente. La perfezione di un elemento non si può catturare con un obiettivo. Il piacere e lo smarrimento di fronte al sublime non si possono intrappolare in qualche parola.
Il monte Kailash, un profilo inconfondibile. Il luogo più sacro per i buddisti.
Un kora, un percorso di circa 50 chilometri intorno al monte, per lavare tutti i peccati della propria vita. 108 kora per il nirvana. Un pellegrinaggio sacro. L’esperienza più importante della vita presente – e di quelle passate e future – per un fedele. Quella che hanno sognato e per cui hanno pregato da quando sono nati e che ricorderanno per sempre.
Un percorso di trekking per un occidentale, poco più di uno spettatore in confronto ai pellegrini buddisti e hindu, un intruso.
Renjo La, Cho La, Kongma La. Tre passi tra i 5350 e i 5550 metri di altitudine, i tre passi del famoso trekking nella regione del Khumbu. Un percorso duro, 19 giorni quasi costantemente oltre i 4000 metri e con numerosi punti oltre i 5000. I tre valichi come porte che collegano il sentiero occidentale poco battuto, Gokyo, il Campo Base dell’Everest, il Kala Pattar, Chhukung, l’Amadablam Base Camp.
Renjo La, Cho La, Kongma La. Tre sforzi per osservare questo paesaggio spettacolare di vette impressionanti. Tre passi da conquistare, uno alla volta, un passo dopo l’altro.
Una mattina nuvolosa si è velocemente trasformata. Senza occhiali il sole riflesso sulla neve caduta abbondante è accecante. Mi ritrovo a camminare verso il Campo Base dell’Everest con qualche giorno di ritardo sul programma iniziale.
Non ho grandi aspettative, la vista non è comparabile ad altre e c’è sempre troppa gente. Così ho sentito dire. Incrocio un gruppo di una quarantina di persone che se ne sta andando. Circondato dai profili imponenti dei monti più alti del mondo, il silenzio è rotto solo dal rumore sordo dei miei passi sulla neve e dai rimbombi simili a tuoni di valanghe paurose che si staccano dalle pendici dei colossi che sono tutt’intorno. Mi viene in mente la riflessione dalla vetta dell’Everest, letta su un libro, del più grande scalatore vivente, Reinhold Messner.
I am nothing more than a single, narrow, gasping lung, floating over the mists and summits.
Non c’è nebbia né foschia e non sono sulla vetta. Ma anche io mi sento qualcosa di molto piccolo in mezzo a tanta maestosità e immensità.
Viaggiare significa lasciare sempre la propria impronta nei luoghi visitati, sotto vari punti di vista: quello ambientale (e naturale), quello sociale (e culturale) e quello economico. Molto spesso l’impronta non è niente di positivo. Molto spesso viaggiando si contribuisce al degrado ambientale ed alla perdita delle identità culturali. Ma è possibile pensare di usare il viaggio come strumento per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente e degli ecosistemi, delle culture tradizionali e delle identità locali, come strumento che porti alla distribuzione socialmente equa dei benefici del turismo, alla valorizzazione delle risorse umane ed allo sviluppo delle comunità locali. Viaggiare sostenibile penso significhi soprattutto intendere questa esperienza come un’opportunità. Per cercare di migliorare qualcosa nel mondo e per migliorare molto in noi stessi.
Testo e foto di Francesco Perini