L’altra via di Marco Polo – Parte 1: da Mosca al deserto di Gobi

18 marzo 2020 - 3:32

Quattro nazioni toccate, 25.000 chilometri da percorrere e infiniti ambienti naturali da vivere. Russia, Mongolia, Cina, Tibet, Nepal. Tra taiga infinita e steppa sconfinata, laghi cristallini e fiumi possenti, deserti inospitali e montagne maestose, metropoli moderne e città antiche, monasteri grandiosi e templi misteriosi, sentieri leggendari e giungla mormorante.

Francesco Perini, 25 anni da Jesi, per 4 mesi, da luglio a novembre ha affrontato un viaggio fantastico attraverso alcuni dei luoghi più belli e selvaggi di tutte le terre asiatiche: da Mosca a Novosibirsk, dalle sponde del lago Bajkal fino agli aridi panorami del deserto del Gobi, dalla maestosità di Pechino fino alle terre cariche di spiritualità del Tibet, dalle pendici dell’Everest fino ad arrivare a Kathmandu, tappa conclusiva di questa splendida avventura.

Mosca in una “imagine”

Le 10 di sera a Mosca. Una città enorme, troppo veloce e piena di tutto proprio come non piace a me, eppure una città sorprendentemente affascinante e creativa. Sono stanco, non vedo l’ora di raggiungere l’appartamento di Galina, mia singolare ospite. Sopra di me le sagome di grattacieli illuminati dalle ultime luci di un’altra lunga giornata estiva. Davanti a me l’omino con le gambe unite e ferme del semaforo rosso. Dietro di me, al centro di una piazzetta, un tipo che accorda la chitarra. Le semplici note che strimpella mi ricordano qualcosa. Poi le corde sembrano tirate al punto giusto, lo spettacolo è pronto per cominciare.

“Continua quella che stavi suonando prima” dice il signore con abito gessato e ventiquattrore rivolgendosi all’artista di strada, mentre gli lascia qualche rublo nella custodia della chitarra. Un attimo, e le note di Imagine di John Lennon sembrano fermare una città intera che gira sempre a 1000 all’ora. Per un momento l’unico rumore in mezzo a quelle strade colme di traffico sembra essere il suono emesso da quella chitarra. L’anima di Mosca sembra essere tutta lì, in quella piccola piazza.

Il momento svanisce in fretta, il capannello di persone intorno al tipo con la chitarra si dirada e finalmente arriva l’omino in verde, che probabilmente nel frattempo aveva fatto in tempo ad alternarsi con il suo fratello rosso almeno tre o quattro volte. Posso attraversare e continuare per la mia strada.

La campagna russa

Suzdal. 200 chilometri da Mosca. Un altro mondo. Il fiume Kamenka serpeggia tagliando in due la cittadina, scorre lento decorato da innumerevoli ninfee che attestano la purezza delle sue acque. Il paesaggio è disegnato dalle sagome di un numero indefinito di cupole di chiese e cremlino che si stagliano a fianco di quelle degli alberi dei boschi. Le strade polverose sono fiancheggiate da prati e cortili fioriti, da campi coltivati o destinati al nutrimento delle famose api da miele della zona e da case tradizionali in legno, coloratissime in blu, verde, giallo, rosso, azzurro o violetto; strade popolate da galli che si mettono in mostra e cavalli che rappresentano il quasi esclusivo mezzo di trasporto, da bambini che giocano rincorrendosi e da abitanti che, con cavalletto e tavolozza, cercano di immortalare quell’atmosfera fiabesca. Se mai dovessero essere esistiti in Russia folletti, elfi o fate, non ho dubbi che sarebbero vissuti a Suzdal.

Il lago e l’isola degli sciamani

Un sottile lembo di terra. Il capo Burkhan crea una baia dal profilo inconfondibile e magnetico, dove le luci oblique dell’ultimo sole fanno brillare la superficie d’acqua sterminata e cristallina. 24mila miliardi di metri cubi,tanta è l’acqua del Bajkal. Un gigante d’acqua limpidissima che, dalle sponde occidentali, appare tra la nebbia e al di là degli alberi come una visione. Lo specchio tanto enorme da sembrare un mare, è grigio. Poi si colora di un azzurro profondo e riflessi verdi. Prima rispecchiando le nuvole, dopo risplendendo sotto i raggi del sole.

Un gigante d’acqua ancora più impressionante visto dal centro, dall’isola di Olkhon, per bellezza e per grandiosità. Foreste, steppa, valli e coste creano un ambiente vario e surreale anche grazie ad un alone di misticismo. L’isola è il centro dello sciamanesimo buriato. Alberi e rocce dello sciamano sono diffusi.

Vita nomade

Una famiglia, qualche ger. Latte rappreso e tè salato per gli ospiti sui tappeti che fanno da pavimento. Carne di montone sotto i letti e latte di cavalla che fermenta in contenitori di metallo. Una jeep in pessime condizioni e un carretto da far trainare ai cavalli, allevati poco lontano, liberi. Qualche mucca e un vitellino in un recinto. Un tabellone di legno rovinato e appeso ad un palo storto, in cui un cerchione di una bici senza raggi, funge da canestro per giocare a basket.

Un bambino in carrozzina cullato dal fratello di 3 o 4 anni. Altri due bambini che giocano a turno con una piccola bicicletta con le rotelle, due donne che cucinano. Un’altra ancora che insieme a suo figlio maggiore, forse di 10 anni, raduna per la mungitura le centinaia di pecore e capre che pascolano l’erba arida di Gobi settentrionale.

Il ragazzino torna alle ger. Mi guarda. Suo nonno sta lavorando la lana e suo padre si sta asciugando il sudore dopo aver lavorato con i cavalli. Nella gerarchia della famiglia ci sono prima loro. Ma prima o poi toccherà a lui, è primogenito. Le responsabilità che il futuro gli riserverà si leggono già nei suoi occhi decisi, duri, ma segnati da una traccia di malinconia. Poi però è sufficiente una palla arancione striata di nero per trasformare quegli stessi occhi in quelli del ragazzino quale é.

Ma, evidentemente, un nomade non può rimanere bambino a lungo.

La seconda tappa: dal deserto di Gobi al Tibet

L’ultima tappa: il Tibet

Testo e foto di Francesco Perini

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