I battiti della montagna

18 marzo 2020 - 12:34

Una storia di uomini, della loro volontà, della loro passione e della scienza che li ha aiutati a realizzare un sogno che credevano perduto: scalare la vetta del Bianco.

Ricominciare si può. Anche quando si sono superati i cinquanta e si è stati colpiti da una malattia grave come l’infarto del miocardio. Ricominciare per vivere con pienezza, senza che la paura possa condizionare il resto dell’esistenza. Lo sanno bene Lucio Siboldi e Gian Cuni, che il 7 luglio 2009 alle 8.30 dopo 5 ore e mezzo di scalata hanno raggiunto i 4810 metri della vetta del Monte Bianco, accompagnati dall’istruttore CAI Celso Merciari e da Cesare Barone, cardiologo e responsabile medico sul campo.

“Avevano questo desiderio” spiega il dr. Piero Clavario responsabile della struttura sanitaria genovese che ha seguito il progetto di riabilitazione. “Per noi è importante che i pazienti non solo sopravvivano alla malattia, ma recuperino una vita piena. E cosa conferisca alla loro vita pienezza lo possono decidere solo loro.

I rischi in questo caso erano soltanto quelli che corrono tutti coloro che scalano una montagna. Dal punto di vista cardiologico addirittura i nostri cardiopatici erano molto più in forma di tanti alpinisti normali”.

Lucio e Gian erano già appassionati alpinisti prima che la malattia li colpisse. Il primo, un bancario, ne sentì i sintomi proprio durante una delle sue escursioni. Per entrambi, il confronto con la malattia ha significato dover rimettere in discussione la vita intera, il rapporto con gli altri e quello con se stessi, con le proprie passioni. Quella per la montagna, innanzitutto.

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Certo, la scalata della vetta d’Europa non è esattamente un’attività che venga in mente se si pensa a un cardiopatico, viste le difficoltà che presenta anche per una persona sana. “Loro ci hanno raccontato della loro passione – spiega ancora il dr. Clavario – e del loro sogno, quello di scalare il Bianco, un traguardo fisico, psicologico e di orgoglio. Noi li abbiamo assecondati, abbiamo preparato un programma specifico che li portasse a raggiungere il loro obiettivo”.

E allora via con il progetto, che si è sviluppato in tre fasi: innanzitutto si sono valutate le conseguenze dell’infarto, determinando cioè in quale misura il cuore aveva perso in funzionalità. Si tratta di un’indagine fondamentale perchè i danni che l’evento infartuale può causare variano da caso a caso e differenze anche minime di risposta del muscolo cardiaco possono avere conseguenze molto diverse in termini di riabilitazione.

Si è poi passati a programmare un allenamento specifico e personalizzato, controllando i progressivi miglioramenti di forma e valutando se il livello raggiunto sarebbe stato sufficiente per permettere l’esercizio in alta quota. L’ultima fase è stata quella di simulazione in un ambiente sicuro.

Si sono testate in laboratorio le condizioni di altitudine per capire se l’esercizio in quell’ambiente avrebbe provocato problemi all’apparato cardiovascolare. Un programma di allenamento sviluppatosi per oltre nove mesi, tra sedute di allenamento alla cyclette, ore di esercizi di allungamento e rinforzo muscolare e uscite nella palestra naturale delle alture che si affacciano sul Mar Ligure.

E poi la prova del fuoco: le prime uscite in montagna con gli sci e le pelli di foca, tredici escursioni di dieci ore in media cominciando dai 2.870 metri del Langfluehutte fino alle due vette del Breithorn Occidentale e Centrale, scalate in una sola mattinata.

Viene da chiedersi: chiunque abbia subito un infarto può osare tanto? “Se due infartuati sono saliti sul Bianco non è detto che lo possa fare chiunque perché questi alpinisti sono ancora oggi degli atleti – conclude Crovari – e anche se hanno avuto un serio problema di cuore, si sono allenati per tutto il tempo necessario e si sono sottoposti a tutti gli esami che abbiamo ritenuto necessari. Andare in montagna con il ‘fai da te’ sarebbe stata una imperdonabile e assurda imprudenza. In Italia ci sono numerosi centri di riabilitazione cardiologica, attrezzati per dare una risposta adeguata a questo tipo di richiesta”.

Non osare troppo, quindi. Ma nemmeno troppo poco. È infatti dimostrato che l’attività fisica, specialmente quella anaerobica, non è pericolosa e se svolta con raziocinio ha efficacia terapeutica e preventiva. Sicuramente sarà così per Gian e Lucio che, ne siamo certi, continueranno a camminare sulle loro montagne. Perché è la loro passione. E si sa, al cuore non si comanda.

Leggi anche l’itinerario: la Via Francese percorsa nel progetto

Testo di Carlo Rocca, foto di Alberto Rizzerio

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