Un viaggio lento di 180 km nel tempo, nella storia e nella fantasia, fra le campagne della Tuscia, sulle orme di Brancaleone de Norcia, l’intramontabile eroe del classicocinematografico di Monicelli
“Pulzelle et omeni che per la rete gite, se ivi siete giunti a la ricerca de la narratione di gran venture in terra di Tuscia o di buon consilio su la organizatione de un vostro personal cimento, a voi lo benvenuto! Sequitate per scoprir le maraviglie naturali et storiche che lo mondo ha da offerire!”
(Il saluto agli utenti del blog Brancammino)
È il sesto giorno di primavera, il sole scalda la rocca di Capodimonte e il lago di Bolsena su cui si affaccia. Qualche chilometro più in giù si vede già la prima meta della giornata: Marta, raggiungibile a piedi in meno di un’ora. È l’inizio del “Brancammino: lo gran cammino de la Tuscia”, un percorso di circa duecento chilometri a piedi attraverso dodici borghi della Tuscia viterbese.
L’itinerario è ispirato dal film di Mario Monicelli “L’armata Brancaleone”, che uscì nelle sale proprio cinquant’anni prima della mia partenza per il cammino sulle tracce dell’eroe norcino. Parte del fascino del film viene dagli incantevoli paesaggi che fanno da scenografia alle vicende dell’eroe ed è durante l’ennesima visione, ora con una certa esperienza in lunghe passeggiate ed escursioni, che l’idea di visitare quei luoghi a piedi mi si ficca in testa e da quel momento inizia a crescere fino a concretizzarsi nel Brancammino.
Le località del film non distano molto tra di loro, tranne la fortezza di Aurocastro (in realtà Le Castella, vicino a Capo Rizzuto), ma in sella al cavallo di S. Francesco, il mezzo con cui avrei affrontato il viaggio, le distanze e i tempi si allungano drasticamente, obbligandomi ad eliminare una parte dei luoghi brancaleoneschi, per creare un itinerario percorribile in una settimana e che non superi la media di venticinque chilometri al giorno.
Più che un limite, la necessità di rispettare questi vincoli mi permetterà di aggiungere suggestivi percorsi e tappe da sfiorare nel seguire l’itinerario del cavaliere norcino. Il percorso che permetterebbe di toccare tutti i luoghi del film è un anello di più di 400 km, sono quindi costretto a tagliare quasi tutte le tappe alla sinistra del lago di Bolsena e concentrarmi sulla zona alla destra del lago, a cui aggiungo molte tappe oltre ai luoghi del film.
Individuate le mete, devo capire se sono collegate da bei sentieri o da strade asfaltate ed è a questo punto che soprattutto grazie al lavoro di Marco Saverio Loperfido, autore de “Il giro della Tuscia in 80 giorni” e ideatore del sito “Ammappalitalia.it“, sono riuscito a collegare i punti marcati sulla cartina con sentieri che creano un percorso di quasi duecento chilometri tra natura e millenni di storia.
Dalle case ipogee a rovine e resti etruschi, lungo antiche strade e fortezze romane, forre rigogliose, campi in fiore, selve e laghi misteriosi, castelli e borghi medievali, palazzi e parchi rinascimentali. Tutto in una pacifica solitudine, che si palesa solo quando smetto di camminare e ritorno alla civiltà, la sera, dopo essermi sollazzato della deliziosa cucina tipica di questi luoghi.
Giorno 1: “Mirate, omeni, mirate! Issa… è Aurocastro!” (Da Capodimonte a Tuscania – 22 km)
Ora che vi ho raccontato la genesi di questa mia personale avventura, lasciate che vi conduca attraverso luoghi che purtroppo, o per fortuna, spesso sono trascurati in favore di percorsi più noti e meglio segnalati. Vi avevo lasciato a Capodimonte, alla volta di Marta, che si raggiunge con un breve sentiero che ci allontana dal lago e da strade più caotiche.
Raggiunto ed esplorato il borgo affacciato sul lago, si segue il fiume Marta, che nasce dal lago ora alle spalle e ci accompagna attraverso campagne, noccioleti, boschetti, forre e cascate fino ai piedi di Tuscania, ultima tappa sulla sponda sinistra del lago di Bolsena. Da qui sarebbe bello poter camminare sulla Via Francigena che porta a Viterbo, ma il tempo tiranno mi priva di questo piacere, così a Viterbo ci arriverò in autobus e mi fermerò lì per poi camminare, dopo una tradizionale colazione pasquale al quartiere di Pianoscarano, verso Soriano nel Cimino.
Giorno 2: “Sequitemi, miei pugnaci!” (Da Viterbo a Soriano nel Cimino – 21 km)
Il sentiero verso Soriano nel Cimino offre una grande varietà di paesaggi, dopo essere usciti dalla città si entra, infatti, nella riserva naturale dell’Arcionello, che dal monte Cimino raggiunge le mura della “città dei papi”. Sul percorso si trova il Monte Palanzana, la cui cima è facilmente raggiungibile con un sentiero ben marcato.
Non è necessario salire sul monte per raggiungere la nostra meta, ma il panorama che si gode da lassù vale la fatica dell’ascesa. Si sale di circa trecento metri, camminando per circa una mezz’ora nel bosco tempestato da massi di peperino, eruttati nella notte dei tempi dal cratere del vulcano su cui sto salendo. In una giornata di cielo terso, la vista potrebbe spaziare fino al mare e all’arcipelago toscano.
A seguire, un rinfrescante bosco di alte conifere che anticipano la salita al Monte Cimino. Appena metto piede nella faggeta, la pace della selva s’impadronisce di me. Resto incantato dalla quiete spettrale di questo posto, tanto che la fatica lascia il posto alla sorpresa e i miei passi istintivamente diventano più lenti e leggeri, quasi come se non volessi disturbare gli antichi spiriti di cui narrano leggende millenarie, tramandate sin dagli etruschi.
Oltre al pensiero di essere al cospetto di creature secolari mentre cammino in una sorta di religiosa ammirazione, il fatto di non sentire il suono dei miei passi, quasi mi muovessi come una creatura eterea al di fuori del tempo, è ciò che crea la particolare aurea che avvolge questa selva. Le mie parole però valgono poco, rinnovo il mio invito a trascorrere qualche ora qui dentro, sapendo che non rimarrete delusi.
Come per ogni escursione, arriva il momento di lasciare questo incanto e scendere verso Soriano nel Cimino, dominata dal castello degli Orsini a cui si addossano le case in peperino dell’antico borgo medievale. Residenza di nobili e papi, è stata poi utilizzata dal 1848 al 1989 come carcere. Attualmente è in vendita a privati.
Giorno 3: “Vado errando et pugnando” (Da Soriano nel Cimino a Caprarola -32 km)
La mattina dopo riprendo il cammino sotto un cielo plumbeo e piovoso, ma non c’è motivo di lasciarsi scoraggiare da un po’ d’acqua, si indossa l’abbigliamento giusto e si sale di nuovo sul monte Cimino per poi proseguire verso il lago di Vico, il Monte Venere e poi Caprarola.
Non riuscendo ad allungare lo sguardo verso l’orizzonte, ci si può concentrare sui dettagli, dare forme ai macigni: qui un drago, lì un orso, più lontano un orco addormentato, e avanti così, a inventare nuovi spettacoli, interpretando forme e colori bagnati dalla pioggia. In meno di un’ora sono sul sentiero già percorso il giorno prima in direzione opposta, una lunga passeggiata dentro il fitto bosco di conifere che finisce a Poggio Nibbio.
Da qui in una giornata di sole potrei ammirare il lago di Vico, il volo dei nibbi e la foresta alle mie spalle, ma tutto quello che mi si presenta è un muro di denso vapore. Da Poggio Nibbio si percorre un tratto di Via Francigena che porta a Località Canale, sul Lago di Vico. L’ascesa per il monte Venere parte da qui, dura circa una mezz’ora e porta alla grotta chiamata pozzo del diavolo. Essendo di origine vulcanica anziché carsica, rappresenta una vera rarità, ed è l’unica grotta vulcanica del Lazio.
Dalla grotta si scende verso il lago di Vico, e dopo una sosta sulle sue sponde si prosegue verso Caprarola, purtroppo manca un sentiero che la colleghi al lago e si può raggiungere solo dopo una lunga salita e un altrettanto lunga discesa sulla strada provinciale, che non manca però di offrire una bella panoramica su lago su cui ora si riflette il sole del tramonto. Completata la fatica odierna si raggiunge l’imponente Palazzo Farnese, visitabile tutti i giorni tranne il lunedì.
Ho la fortuna di avere una stanza proprio nella via principale che porta alla scalinata del palazzo, di fronte a cui mi recherò il giorno dopo per affrontare il successivo tratto del cammino, molto meno impegnativo di quello appena lasciato alle spalle.
Giorno 4: “Aìta, aììta!” (Da Caprarola a Nepi -26 km)
La quarta tappa del Brancammino passa per Ronciglione e arriva a Nepi. La prima parte del tratto, fino a Ronciglione offre un’ultima vista panoramica su Caprarola e la valle del Tevere, che si estende ai suoi piedi, prima di inerpicarsi tra noccioleti e castagneti fino al borgo. Nel primo tratto poco fuori il paese si incontrano numerose casette improvvisate con lamiere, pannelli di plastica e legno, tenute insieme da cordoni e fil di ferro.
Atmosferica arte di arrangiarsi, purtroppo rovinata dall’odore degli scarichi dei mezzi agricoli che ogni tanto appaiono sulla strada. Perlustrata Ronciglione in lungo e in largo, mi rimetto in marcia alla volta di Nepi. I successivi chilometri si sviluppano tutti tra rilassanti e piacevoli noccioleti e campi fino a destinazione. Da qui vedrete apparire in lontananza il monte Soratte, solitario nella valle del Tevere, le sue sei cime tondeggianti diventeranno lontane e silenziose compagne di viaggio durante le prossime tappe del cammino.
A Nepi è stata girata la prima scena del film “L’armata Brancaleone”. Sebbene molto sia stato coperto dal cemento, i luoghi del film sono facilmente riconoscibili. Dal simbolico acquedotto salgo nel borgo medievale, alla rocca dei Borgia e alle numerose chiese dell’abitato di Nepi.
Dall’alto della rupe tufacea vedo una delle peculiarità morfologiche della Tuscia che più mi affascinerà in questo viaggio e che avrò il piacere di esplorare nei tre giorni successivi: le forre. Lunghe gole che squarciano la valle del Tevere, invisibili da lontano, ma mozzafiato quando ci si trova a fianco delle loro pareti a perpendicolo scavate dalla millenaria erosione dei torrenti.
Percorrendo un sentiero panoramico che offre una bella visuale sulla valle del Treja, rimango incantato dalla visione di Castel Sant’Elia, sull’altro lato della valle. Ci sono dei sentieri che portano da Nepi a Castel Sant’Elia, purtroppo non ho tempo per percorrerli, se però capitaste da quelle parti non fateveli sfuggire. Evitate poi di arrivare a Nepi di martedì, giorno di chiusura per la maggior parte dei ristoranti…
Giorno 5: “A le acque de la salvazione!” (Da Nepi a Orte -25 km)
Una serie di imprevisti posticipa la partenza alle undici, pregiudicando seriamente la riuscita dell’escursione di oggi, che da Nepi, attraverso Falerii Novi, Corchiano e Vasanello dovrebbe portarmi a Orte, oltre trentacinque chilometri più a nord. Con un po’ di sole in più e una migliore cartina ci sarei potuto arrivare, ma il mio viaggio oggi si fermerà poco dopo la metà, tra Corchiano e Gallese.
Tutto il cammino di oggi sarebbe degno di nota, in particolare segnalo le forre in cui ci porta la Via Amerina, rigogliose giungle italiane disseminate di testimonianze del passato, tra cui spiccano l’isola Conversina, la necropoli di Cavo deli Zucchi, tratti di basolato romano ottimamente conservato e i resti delle mura di Falerii Novi.
L’ultimo tratto della Via Amerina che arriva a Corchiano ci porta invece nella forra del Rio Fratta, dove abbondano bellezze naturalistiche e testimonianze del passato, cavernette preistoriche e protostoriche, tombe e vie cave falische, un ponte romano, un tratto della via Amerina, antiche mole, opere idrauliche falische, nonché una centrale idroelettrica in funzione fino ai primi anni Sessanta del Novecento.
Come vi ho anticipato, non riesco a completare la tappa di oggi e arrivo a Orte in auto, grazie all’autostop e alla generosità del padrone della locanda in centro ad Orte. La Via Amerina è però ben documentata e non faticherete ad informarvi da altri che l’hanno percorsa. La tappa concepita per il Brancammino è piuttosto lunga, ma con la giusta organizzazione può essere affrontata e completata in una giornata davvero appagante.
Giorno 6: “Baldanza!” (Da Orte a Bomarzo – 30 km)
Scendo dalle scale della locanda per esplorare Orte e la trovo avvolta da uno spesso mantello di nebbia. Tutto è tinto di vapore grigio, la Valle del Tevere, i borghi e le colline lontane si nascondo nella fresca e umida aria del mattino.
Il mondo inizia a rivelarsi solo alle nove e mezza, quando il vento e il sole alzano lentamente i banchi nebulosi, fino a sollevare i veli bianchi adagiati sui tetti, le rocche e i campanili e mostrare i tesori nascosti della Tuscia. Uno di questi è Bassano in Teverina, ben visibile sulla rocca alla mia sinistra. La raggiungerò più tardi, dopo una visita al Lago Vadimone, oggi uno stagno, duemila trecento anni fa fu teatro della più grande battaglia tra etruschi e romani.
La vista dal belvedere di Bassano in Teverina gratifica ogni sforzo compiuto per arrivare fino a qui. Uno spettacolo ricco di campagne, boschi, colline, borghi medievali, montagne e nuvole che si estende dalla valle del Tevere fino all’Appennino innevato.
Esplorati i vicoli e le piazzette ben conservate dell’antico borgo è il momento di dirigersi verso una Bassano più moderna, dove sostare per un po’ di ristoro prima del secondo tratto di oggi: da Bassano in Teverina a Chia, una tranquilla scampagnata tra uliveti e noccioleti fino al vecchio borgo di Chia. La torre di Chia è il prossimo obiettivo, un luogo cinematograficamente importante: oltre ad essere la scenografia della prima apparizione dell’eroe che ispirò questo cammino, fu dimora di Pierpaolo Pasolini, che acquistò la torre e il castello nel 1970. Sotto la torre, oggi affidata al gruppo archeologico Roccaltìa, scorre il torrente Castello, artefice della forra che separa Chia da Bomarzo.
Questo magico luogo funziona come una bizzarra macchina del tempo, poco dopo i mulini dello scorso secolo incontrati dopo essere passato in una galleria scavata nella roccia, riaffiora il basolato, che mi porta indietro di duemila anni e di nuovo in superficie.
Sballottato nel tempo e nello spazio non mi accorgo dei chilometri che sto macinando, saranno già una ventina eppure nessun muscolo, tendine o legamento mi chiede di fermarmi, anzi, sono tutti tesi a portarmi ad assistere a nuovi spettacoli fino a destinazione. I prossimi sono la piramide etrusca e il sito archeologico di Santa Cecilia. Perlustro questi sacri luoghi in punta di piedi, sfiorando le pietre sbozzate dall’uomo e rifinite dalle intemperie, immaginando i riti che si svolgevano qui sin dall’alba della civiltà. Questa perfetta simbiosi tra uomo e natura trasmette armonia e scaccia gli opprimenti pensieri che spesso ci induce il mondo attuale, in cui questo equilibrio è ormai perduto.
Lungi dall’essere concluso, l’itinerario prosegue per boschi e più moderni noccioleti e noceti sorvolati da aironi cinerini che pescano nel ruscello al mio fianco. Alla fine di questo tranquillo vagare nelle campagne, è il momento di affrontare l’ultima salita, dopo un fugace sguardo alla possente torre di Mugnano, e raggiungere la zona moderna di Bomarzo calpestando un tratto di antico basolato etrusco.
Al termine della camminata di trentamila metri nello spazio e più di tremila anni nella storia, la rupe di Bomarzo è conquistata e da qui posso ammirare un grandioso tramonto sulla vallata sottostante.
Giorno 7: “Ehi, una cittade!” (Da Bomarzo a Vitorchiano -15 km)
Oggi, come vostro umile narratore delle meraviglie in Tuscia, vi porto nel Parco dei Mostri di Bomarzo (anche Bosco Sacro o Villa delle Meraviglie) concepito dalla mente di Pier Francesco (detto Vicino) Orsini e sviluppato tra il 1552 e il 1580 con l’intento di creare un’opera unica al mondo. Su Bomarzo aleggia un’aura misteriosa come le sue sculture.
Si rincorrono nei prati all’ombra di alberi secolari, nella mitologia e nell’architettura ispirate da luoghi e tempi distanti tra loro e qui riavvicinati, non in armonia, ma in un caotico inseguimento dall’enigmatico fascino che da cinque secoli rapisce i suoi visitatori.
Sarà la forza della suggestione, ma quando lascio il parco mi sento scombussolato, stranamente accaldato anche se la giornata è nuvolosa e fresca, con le vertigini e un senso di nausea che mi ha preso da quando sono stato nella casa pendente.
Ci vorranno due salite e una discesa lungo i vigneti abbarbicati sul peperino, e i vasti campi noccioleti per rimettermi in sesto e raggiungere l’area archeologica di Montecasoli. Come durante la tappa di ieri, da Bomarzo a Vitorchiano si viaggia più nel tempo che nello spazio.
Il sentiero che attraversa il pianoro sulla rupe tufacea che si allunga alle spalle della chiesa di Santa Maria di Montecasoli, e poi scende nel noccioleto a valle, è costellato di testimonianze del passato che mi accompagnano fino al secondo terzo del percorso di oggi. Nascosto in un noccioleto, senza nessuna indicazione, sorge il sasso del predicatore, un alto masso di peperino in cui è stato scavato un altare etrusco.
E’ il momento di lasciare per un po’ la civiltà e prendere un passaggio che attraverso la fitta boscaglia porta in un luogo al di fuori del tempo. Uscire dalla fitta vegetazione è come attraversare un varco temporale, aperto su una stretta stradina coperta di foglie che corre tra la selva e una parete di roccia verticale alta decine di metri, su cui si arrampicano felci, muschi, edera e aperture di case ipogee.
Un’ora dopo aver visitato il sito di Corviano e i resti di un castello medievale, seguito il flusso del ruscello tra casolari e noccioleti, magnifica visione brancaleonesca! Sopra di me, in cima ad un alto e solido altopiano di peperino grigio, una cittade: Vitorchiano! Splendida, illuminata dal sole di metà pomeriggio, solenne come una statua scolpita nella stessa roccia su cui si appoggia.
La salita è ripida ma al cospetto di questa scultorea bellezza si affronta senza fatica, fino a raggiungere l’antico ingresso alla città, un arco nella roccia costellata di colombaie etrusche ed altri segni molto più antichi dell’attuale borgo, che da centinaia di anni domina la selva e la valle ai suoi piedi.
Giorno 8: “Bando agli scoramenti” (Da Bagnoregio a Civita di Bagnoregio e valle dei calanchi -7 km)
Il piano per l’ultimo giorno prevede una lunga marcia di oltre trenta chilometri da Vitorchiano a Lubriano, attraverso Grotte di Santo Stefano, Bagnoregio e Civita di Bagnoregio. Non troppo incline a svegliarmi alle cinque di mattina per arrivare a Lubriano alle diciotto e da lì spostarmi in autobus ad Orvieto, dove prendere un treno per Trento, scelgo di cambiare drasticamente la tappa di oggi e farmi portare in auto a Bagnoregio, riducendo la tappa di oggi ad una tranquilla scampagnata da Bagnoregio a Civita di Bagnoregio e la valle dei calanchi.
Se volete evitare la fiumana di turisti e al contempo ammirare Bagnoregio da un punto di vista alternativo, seguitemi per qualche chilometro di quiete, prima di buttarvi nel marasma di Civita di Bagnoregio, la “città che muore”, più viva che mai. Uscendo dalla città seguendo Via dei Vasellai e poi Vicolo delle Balze, si scende alla valle sottostante per ammirare Bagnoregio dal basso e scoprire che l’attuale borgo posa le sue fondamenta su abitati molto più antichi.
Come Corviano e altri luoghi della Tuscia, il grembo roccioso della rupe è stato testimone della successione di numerose civiltà. Tutto questo, oltre ai tranquilli sentieri che attraverso le campagne portano al moderno accesso al borgo arroccato nella valle dei calanchi, passa inosservato, offuscato dalla notorietà di Civita di Bagnoregio.
Nelle immediate vicinanze di Civita, potete avere un assaggio di una meta meno frequentata, si tratta della valle dei calanchi, che poi è il vero interesse della mia visita qui, visto che l’ultima tappa del cammino corrisponde all’ultima scena del film che lo ha ispirato. La si raggiunge attraverso una delle antiche entrate alla città, il cosiddetto “Bucaione”: una galleria scavata nella roccia che porta fuori dal paese.
Raggiunto il fondovalle c’è un sentiero che porta a Lubriano. Se non vi perdete nei calanchi, come ha fatto il sottoscritto, vi porterà ad un borgo da cui ammirare Civita da un altro punto di vista meno classico.
Il Brancammino finisce qui, nei calanchi di Civita di Bagnoregio, quasi per coincidenza proprio come il film. Sono stati centottanta intensi chilometri che mi hanno permesso di riflettere sulla bellezza misteriosa di questi luoghi poco conosciuti, su quanto sia necessario che la nostra società rallenti e ricerchi un’ormai perduta armonia con la natura. A volte per farlo è necessario camminare per lunghe distanze, magari da soli (o ben accompagnati) su strade ancora fresche dell’inchiostro con cui è scritta la storia dell’umanità.
Ho scritto questo articolo per rendervi partecipi di questa mia modesta avventura, strapparvi un sorriso, ispirare un viaggio e informare sulle incantevoli meraviglie che spesso ignoriamo. Spero di esserci riuscito. Scrivere è stato come ripercorrere il Brancammino con la penna e in compagnia dei lettori, anziché con gli scarponi e in solitaria.
Testo e foto di Marco Biondani – trovate racconto dettagliato del viaggio nel blog Brancammino