Un viaggio in tre tappe nei luoghi descritti dal naturalista inglese nei suoi libri, una “terra zeppa di vulcani ammantati di giungle”. Qui Gerald Durrell mossei suoi primi passi circondato da una miriade di bizzarri animali selvatici in via di estinzione che insieme ai suoi “segugi di Bafut” catturò e imbarcò sulla sua “arca sovraccarica”.
Tempo fa ci capitò di leggere uno dei tre libri che Gerald Durrell dedicò al Camerun: rimanemmo estasiati per la prosa del famoso naturalista inglese che in pochi tratti riusciva a descrivere così bene un paesaggio esotico da materializzarlo davanti a noi. Contemporaneamente apprezzammo il divulgatore d’eccezione che in due pagine ci presentava un saggio sulla fauna della giungla equatoriale africana, e infine fummo irresistibilmente conquistati dal naturalista pioniere nella salvaguardia degli animali minacciati di estinzione, che ideò, più di mezzo secolo fa, il secondo simbolo della conservazione più famoso al mondo dopo il panda: il dodo.
Questo stranissimo piccione gigante, sfortunato perché inetto al volo, è l’emblema della miopia umana: si estinse infatti in tempi storici nell’isola di Mauritius (indovinate un po’ per colpa di chi) e campeggia, come monito, sul cancello di entrata dello zoo di Jersey fin dal giorno della sua inaugurazione, facendo da polena alla specialissima ‘arca salva-animali’ di Gerald Durrell.
I racconti della “rain forest”
Decidemmo così di leggere tutti i libri in cui racconta la sua vita avventurosa nella rain forest africana: dalla sua penna escono, una dietro l’altra, esilaranti scenette di un’unica, avvincente, tragicomica commedia avente come protagonisti i bizzarri animali cui Durrell presta in modo straordinariamente calzante i pregi e i difetti degli esseri umani.
In tre dei suoi libri più riusciti, “L‘arca stracarica”, i “Segugi di Bafut” e “Luoghi sotto spirito”, ambientati nell’allora Camerun Britannico, riesce anche a descrivere con straordinaria ironia la vita quotidiana all’epoca delle colonie e ci svela il misterioso universo animista dei nativi. Nell’introduzione del primo si può leggere il migliore invito al viaggio in Africa che un esperto può rivolgere a un neofita: con il suo impareggiabile sarcasmo, espressione del suo ambientalismo ante litteram, esorta a non indugiare troppo negli angoli d’Africa dove la natura è stata sconsideratamente annientata dagli “influssi benefici” della civiltà occidentale.
Nei libri sul Camerun si intuisce tutta la passione che Durrell, da moderno naturalista, riverserà nella sua opera conservazionistica: da molto questo grande paese dell’Africa centrale, con le sue distese selvagge, ci attraeva irresistibilmente, e la lettura dei suoi libri non fece altro che convincerci a partire e prepararci al viaggio nel giusto modo, curiosi di sapere con quali occhi la nostra “guida ideale” osservò l’Africa, e se quei luoghi sono ancora gli stessi.
Prime impressioni d’Africa
Durrell nei suoi racconti manifesta ironicamente l’irritazione per i ritardi e per i contrattempi durante le varie tappe del suo viaggio consigliando a chi visita il Camerun di munirsi di una buona dose di flemma (a lui da buon inglese, of course, non mancò!). Eravamo insomma vaccinati contro gli imprevisti con cui avremmo avuto di certo a che fare in terra africana dopo l’attenta lettura dei suoi diari: tutti gli episodi da lui narrati sarebbero risultati di grande aiuto pratico per calarci nella realtà quotidiana di questo paese dopo l’atterraggio a Douala, prima tappa d’obbligo per chi lo visita.
Quando nel 1946 il naturalista inglese sbarcò sulla costa affacciata sul Golfo del Biafra aveva 21 anni, e insieme a lui c’era un giovane ornitologo, John Yealland, praticamente l’incarnazione vivente del self control di cui vanno tanto fieri i Britannici. I due sarebbero rimasti in Camerun per 6 mesi percorrendo in lungo e in largo la regione amministrata a quel tempo proprio dagli Inglesi fino al bacino del Fiume Cross, una regione selvaggia, montagnosa e ricca di fauna, grande all’incirca quanto la Sardegna. Da Douala partiamo alla volta di Limbé che durante la colonizzazione si chiamava Victoria, in onore della famosa regina inglese del tempo.
Il primo scorcio africano che Durrell avvistò dalla nave, “una manciata di isolotti straripanti di vegetazione” e, in lontananza, il litorale dominato dalla “gobba indistinta del gigantesco Monte Camerun”, lo ingannò: immaginò infatti che la regione fosse ricoperta da una lussureggiante foresta che celava “larghi fiumi magici”. Sceso a terra però si rese conto che la realtà era ben diversa: la fascia costiera estesa tra Tiko, brulicante porto coloniale, e Victoria, era infatti già stata deforestata per far posto a una “sconfinata piantagione di palme” che, ai suoi occhi di naturalista, dovette sembrare orrenda e quasi irreale.
Noi non proviamo tale disillusione poiché usciti da Douala, la nostra città di arrivo, attraversiamo prima un immenso mangrovieto sulle bocche del fiume Wouri e poi la piantagione descritta nel libro, constatando malinconicamente che alle palme da olio si sono addirittura aggiunte le monotone colture di caucciù e di banane della multinazionale americana Del Monte. La pista di laterite che percorse Durrell è diventata poi niente meno che una moderna autostrada! Eppure, anche se lontana dalla wilderness tanto immaginata, il giovane naturalista rimase estasiato alla vista di Victoria: la definì a ragione “incantevole e piena di cose da vedere”, tanto bella che i due studiosi vi soggiornarono per una intera settimana.
Arrivati a Limbé, nome con cui i Camerunesi ribattezzarono Victoria al momento dell’indipendenza, capiamo perché Durrell ne rimase incantato, visitando una infinita successione di spiagge di sabbia lavica nera, una più bella dell’altra, sulla strada litoranea che conduce a Idenao, alla penisola di Bakassi e infine sul delta del Fiume Niger, in territorio nigeriano; nel libro “L’arca sovraccarica” il naturalista non mancò di segnalarle sia perché vi fece ripetutamente il bagno sia perché finalmente poté osservare la rain forest che arrivava, e ancor oggi arriva, fin sull’oceano.
Le spiagge nere, nominate con le miglia che le separano dalla città di Limbé, sono costituite da sabbia finissima che al tatto sembra seta. Nella più distante constatiamo la causa della loro remota origine: la strada asfaltata infatti a un certo punto devia per aggirare una imponente colata di magma ancora fumante che, fuoriuscita da una delle bocche laterali del vulcano, ha distrutto una striscia della foresta che lo ricopre.
Una volta raggiunta la stretta fascia costiera, la lava ha prima invaso la strada litoranea e poi proseguito verso un moderno complesso alberghiero senza consumare completamente il misfatto poiché si è fermata in tempo. La visita dell’orto botanico e del giardino zoologico di Limbé è da consigliare a tutti gli amanti della natura.
Il primo custodisce una collezione sterminata di palme e alberi della rain forest centro-africana, visitabile percorrendo i numerosi sentieri che si avvitano sui fianchi di una delle alture che si affacciano sulla baia; il giardino zoologico vanta un prezioso campionario delle più rare scimmie del Camerun, paese che per numero di specie di primati, in Africa, è secondo solo alla sterminata Repubblica Democratica del Congo (ex-Zaire), 5 volte più grande!
Leggi anche le altre due puntate:
Camerun: sulle orme di Gerald Duller – Parte 2, la “Rain Forest”
Camerun: sulle orme di Gerald Duller – Parte 3, verso la Guinea
Testo e foto di Riccardo Nincheri