19 marzo 2020 - 14:17

In apertura foto Shutterstock/ Jens Ottoson

I percorsi lungo un cammino cambiano continuamente senza mai ripetersi

Passare dal fisso al mobile è lo slittamentoprospettico che bisogna attuare per comprendere coloro che amano camminare o meglio “discorrere” senza confini imposti da altri perché chi cammina attua capacità’ creative, di mutazione e anche di resistenza che riguardano il mondo ambiente, il mondo che siamo noi.

Non ci sono confini distinguibili tra il corpo e l’ambiente e tutto ciò consente di emanciparci da vere e proprie riserve. Infatti percorrendo a piedi un territorio, le nostre zone marginali, di confine e quelle che incontriamo diventano mobili. Non si riesce rigidamente a mappare un territorio, ma attraverso il divenire dei nostri passi si esprime il sé.

Dare al corpo espressione attraverso il movimento significa varcare la soglia, il limen della propria corporografia. “Toccando” la terra si cammina in primis nel proprio corpo che è sempre meno radice inteso come spazio chiuso, come qualcosa di determinato, ma territorio di mutazione.

Camminare diventa sinonimo di SINESTESIA perché coinvolge l’intero tessuto corporale, denso di recettori e percettori: si cammina con gli occhi, si sente con i piedi, si percepisce il suono tattile del vento, insomma tutto ciò produce attraversamenti sradicanti.

Diventa dunque impossibile definire, mappare, territorializzare una esperienza di cammino; piuttosto il sentiero, la strada muta e soprattutto le parole formano un percorso sempre in transito.

Anche la segnaletica diventa sinonimo di crocevia di incontri tra i segni del tempo (crepe screpolature, decolorazioni) e tracce del “sentire umano” (disegni, rielaborazioni, frasi su una pietra).

 

Camminare ci permette di essere degli spettatori, ma anche degli attori in continuo dialogo con ciò che ci circonda. Insomma in questo “equilibrio precario” il territorio, il cammino è un costruttore di sistemi mutevoli.

Eppure anche nei cammini si utilizzano a volte, sinonimi che evocano in modo forse illusorio, una staticità, un microcosmo: tradizioni, identità, radici.
In realtà, la condizione più propria del camminare nel presente quotidiano in un territorio, è lo “spaesamento”.

Camminare permette di collocarsi non soltanto fisicamente in uno spazio, l’ordine percettivo delle cose e del proprio sé cambia. Lo stato è quello dell’anonimia, in cui la mancanza di una organizzazione mnemonica fissa, rinchiusa in un frame permette di “traslocarci”, trasportarci altrove.

Il “patire” a livello percettivo e cognitivo lungo il cammino fa emergere le differenze che producono in ognuno di noi una mappa individuale attraverso una interpretazione del territorio che è sempre soggettiva.

Si consultano mappe cartacee o digitali e si riconosce il territorio, ma dobbiamo vederlo per la prima volta. Cogliere, percepire le differenze grazie alle quali si possono vivere mappe individuali, vere e proprie memorie biografiche, così i luoghi diventano materia significante.
Scrivere e interpretare i cammini non vuol dire produrre repliche.

Nel montaggio di racconti resoconti, frammenti emergono delle polifonie. E’ nella scrittura liquida che avvengono delle sinapsi: congiunzioni di parole, immagini, video, tra molteplici camminatori.

I percorsi lungo un cammino cambiano continuamente senza mai ripetersi perché c’è la necessità di narrare memorie/storie attraverso i nostri passi. In fondo, le tracce necessitano sempre di un filo narrativo.

 

di Chiara Carrarini