Il crustingo: il dolce povero delle Marche coi fichi secchi

18 marzo 2020 - 10:33

Per povero dolce, si intende il fico marchigiano, quello secco, simbolo della povertà al punto che un pranzo di poche portate era detto: “Ha fatto le nozze con i fichi secchi”.

Ma il fico secco per la sua particolare pecularietà assume un ruolo molto importante per l’agricoltura. Un tempo nelle campagne marchigiane si coltivavano i fichi in grande abbondanza e i contadini si davano un gran da fare per conservarli in molti modi diversi.

Una conferma dell’uso dei fichi secchi marchigiani, ce la dà Giacomo Leopardi in una lettera scritta al padre da Bologna nel lontano 20 febbraio 1826: “Carissimo Signor Padre. Quando mi giunse la sua del 12, io aveva già poco prima riscossa finalmente la roba portata da fusello. I fichi e l’olio sono qui applauditissimi e graditissimi… “.

A febbraio si parlava certamente di fichi secchi e non freschi. Il fico secco è più nutriente di quello fresco perché diminuisce notevolmente la percentuale di acqua, per cui aumenta quella delle sostanze proteiche, degli idrati di carbonio, dei grassi e dei sali. In passato, durante le feste natalizie, era quasi d’obbligo in tutte le Marche, preparare il dolce di fichi secchi: il “crustingo“.

A poco a poco però la tradizione di prepararlo è andata scomparendo tanto che sono rimasti in pochi a ricordarne il nome, e in pochissimi il sapore.

Attualmente, con la tendenza a riportare in vita l’antico patrimonio culturale, anche nel settore della gastronomia si tende a riprendere in considerazione quanto sembrava ormai definitivamente dimenticato.

Il “crustingo” ha denominazioni diverse da paese a paese e varia alquanto nella composizione. Il “frustingu o frustengolo” è tipico della zona del Maceratese, ed è una torta compatta a base di farina integrale che riunisce fichi secchi, uvetta, mandorle, zucchero, cioccolato ed altro.

Altro dolce consimile, come nome, ma ben diverso nella sostanza, è l’Anconetano “frustenga” o “pistingoll” che vede come principale ingrediente la farina di mais, cucinata nel suo modo naturale, ossia sotto forma di polenta a cui si uniscono fichi secchi e uvetta, dopodiché si trasferisce l’impasto in una tortiera per poi passarla in forno.

Il “Trostengoll” di Camerino è riservato al giorno in cui si uccideva il maiale, disponendo cosi del sangue fresco necessario per quella ricetta. A Fermo e nell’Ascolano lo chiamano “figusu”, etimo inconfondibile. È d’uso recente modellare il dolce a forma di salame e avvolgerlo in foglie di fico.

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