Pur essendo un uomo del suo tempo, non esente dall’esercizio del potere assoluto, il razionalismo e la saggezza che caratterizzarono la personalità di Federico II di Svevia, lo collocano ben al di là del buio e della superstizione del tempo in cui visse. Il suo desiderio più grande, quello di un grande impero fondato sulle leggi del diritto e non della violenza, ravvisabile in quella che oggi è l’Europa, si sarebbe realizzato solo ottocento anni dopo, a lui resta il merito di averlo sognato e tentato di realizzarlo per primo.
Quando qualcuno insegue sogni impossibili si dice che costruisce castelli in aria, ma Federico, amministrando con grande sapienza il suo regno, i suoi castelli li costruiva davvero, in terra e in solida pietra! Il tempo che tutto dimentica e cancella, non ha avuto ragione del “Diadema di Puglia”, il più bello, il più enigmatico e misterioso tra tutti, il “codice di pietra” con il quale Federico II intendeva, al riparo dagli anatemi dei Papi, consegnare il suo sapere alla posterità.
Senza il pensiero innovatore di Federico II e la rara capacità che possedeva, di riuscire a tradurre in pratica sul territorio e nell’agricoltura, le sue intuizioni, la Puglia oggi non avrebbe certamente lo stesso grande patrimonio di storia, cultura, sapori e profumi, così come li conosciamo.
Immaginando di fare parte del multietnico, colorato, fastoso seguito con il quale Federico II usava spostare la corte (uomini, tesori e l’intero serraglio di animali esotici), a seconda delle stagione, in una delle numerose dimore fortificate e di caccia, possiamo costruire un insolito itinerario alla scoperta degli aspetti più rappresentativi della tradizione gastronomica pugliese e lucana.
Foggia nella Capitanata, un tempo circondata da fitte foreste di faggi e querce, popolata di animali selvatici, oggi ha una connotazione prettamente agricola le cui radici risalgono alle prime opere di bonifica, regimentazione idrica e deforestazione del territorio ad opera della comunità araba trapiantata da Federico II nella vicina Lucera. Tuttora, il 50 per cento del pomodoro italiano si coltiva in provincia di Foggia.
Il Tavoliere è essenzialmente colori, sapori e profumi legati alla produzione di pregiati olii, formaggi, salumi che si continuano a produrre secondo procedimenti antichi e che il “Consorzio del Tavoliere” salvaguarda e tutela come espressione di una tradizione millenaria fatta di cultura del lavoro, rispetto per l’ambiente e amore per la natura. Nei piatti semplici e gustosi, a volte veri testi di sapienza arcaica, si scoprono le radici della gastronomia foggiana.
I “ciccekutte” sono chicchi di grano tenero (bianchetto), messo a bagno per almeno 24 ore, cotto e condito con vincotto (o miele), melograno, noci tritate e cioccolato fondente a dadini. Per tradizione si preparano in occasione della Festività dei Defunti e hanno evidenti riferimenti ad antichi concetti pagani, rappresentano infatti la vita che rinasce nell’aldilà: “u granate” (il melograno) l’immortalità e l’abbondanza, e “u vinekutte” (il vincotto) l’amicizia, la compagnia.
Allontanarsi dalla piana densamente popolata e coltivata del Tavoliere di Foggia, è un po’ come ritornare indietro nel tempo. Quello che cattura i nostri sensi sono i grandi spazi, i silenzi, i colori e la luce, in un susseguirsi infinito di linee ed increspature dalle mille sfumature calde, dorate che si inseguono, fino ad incontrare, quasi un miraggio nella luce accecante, la linea delle colline sull’orizzonte.
Il paesaggio cambia radicalmente, mano a mano che ci si avvicina alle propaggini del Vulture potentino ricoperte come un tempo di folte e silenziose foreste. A Melfi e nel Castello (Tel. 0972.238726), sulle scure colline vulcaniche e a Lagopesole, Federico cercava sollievo e diletto negli ombrosi boschi circostanti, dedicandosi alla caccia con il falcone. A Melfi si tengono importanti manifestazioni gastronomiche, l’Aglianica con degustazione di vini e altri prodotti tipici e la “Sagra della Varola”, dal nome del recipiente bucherellato dove si cuoce il tipico “marroncino di Melfi”, particolarmente adatto per la confezione di dolci, gelati e marrons glacé.
Oggi i ruderi del castello svettano su di una collina solitaria, a poca distanza dall’impareggiabile opera d’arte della natura che è il paese di Gravina di Puglia. A ben guardare la lunga lista delle leccornie che si producono a Gravina, sempre “luogo dei ristori” resta! Il Fallone di Gravina, la salsiccia secca a punta di coltello, la ventresca aromatizzata con peperoncino e spezie, la «p’zz’ntell»,una salsiccia più grassa del solito, utilizzata per dare più forza al ragù, il pane, che è diverso da quello dei centri vicini ma sempre squisito, il sasanello, dolcetto ottenuto da farina impastata con vincotto, i taralli e molto altro ancora.
Da Gravina a Ruvo di Puglia, sull’altopiano delle Murge, è forse la parte più emozionante dell’itinerario, quella in cui ci si ritrova immersi nel fascino solitario tipico delle Murge, un mare cristallizzato di bianche rocce calcaree, avvallamenti e voragini dovute all’erosione, argentei uliveti, vigneti e le dolci ondulazioni dei dossi e delle terre rosse coltivate. Terra aspra ma non selvaggia, dove, grazie al duro lavoro di secoli di agricoltori e pastori si sono ottenuti quei prodotti, vini, olii, formaggi e grano duro, oggi vanto dei pugliesi. Ruvo di Puglia, merita una sosta dove gustare, nella cucina di antiche masserie trasformate in agriturismi, ma non solo, le deliziose verdure selvatiche della Murgia: cicorielle, lampascioni ruchette selvatiche e funghi cardoncelli, da soli o con l’agnello al forno con patate e lampascioni, uno dei piatti simbolo della cucina delle Murge.
Perfetta sintesi fra scienza, matematica e arte, Castel del Monte è stato definito “pietrificazione di un’ideologia del potere, manifesto della regalità tradotto in un materiale che resiste nel tempo”. Nella Puglia Imperiale, come viene anche chiamata la nuova provincia di Barletta-Andria-Trani ricca di testimonianze federiciane, l’itinerario non può che chiudersi con l’immagine perfetta del “diadema di Puglia”, che si staglia, nella sua inconfondibile forma a corona, nell’azzurro del cielo, alto sulle Murge, sempre uguale a sé stesso da qualunque parte lo si raggiunga in cima alla collina. Irreale e maestoso, Castel del Monte scrigno senza chiavi e senza porte, continua a custodire i segreti di Federico. Molti studiosi hanno cercato di decifrare il “codice di pietra”.
A Castel del Monte, niente è lasciato al caso. Il castello non fu costruito per essere una residenza, non ci sono locali per la corte, né scuderie e non può essere neppure una fortezza perché non ci sono né cucine, né magazzini indispensabili per ospitare guarnigioni, niente ponte levatoio, né sotterranei.
La posizione non è casuale, portali e colonne hanno precisi riferimenti astronomici e Castel del Monte, ultimo dei tre ad essere costruito, si trova esattamente al centro della distanza tra la cattedrale di Chartres e la piramide di Cheope, altri misteriosi codici di pietra. Ma la cosa più sorprendente è l’ossessiva presenza del numero 8 che non può essere la semplice evoluzione dello stile svevo con cui si costruivano castelli a pianta quadrata con 4 torri angolari. 8 torri, 8 stanze, 8 pareti a formare ottagoni.
L’ottagono è il poligono mediatore tra il quadrato/la terra e il cerchio/il cielo. 8 è l’emblema della rinascita e della ricrescita, simbolo dell’infinito. 8 è il numero dell’equilibrio cosmico che lega l’uomo alla conoscenza e all’infinito. Ed infine, i matematici (e Federico nel 1226 incontrò il grande matematico Fibonacci), vi hanno trovato continui riferimenti al numero aureo, il numero d’oro 1,618, la “forma e la firma di Dio”, in quanto presente in tutti gli organismi viventi e anche nei pianeti e nella distanza dal sole. Federico forte della conoscenza, forse voleva riportare nella pietra il numero di Dio.
Testo di Patrizia Benini / Foto di Enrico Bottino e Francesca Sciarra