Bormio: sport e benessere ad alta quota

Bormio, stazione di sport invernali conosciuta in tutto il mondo per le sue piste, vanta un primato molto antico. All'epoca dell'antica Roma un luogo ricercato per le qualità “magiche” delle sue acque. Oggi è una meta ideale per gli amanti dell'outdoor che vogliono coniugare sport e relax

25 gennaio 2022 - 3:18

Immersa nella grande vasca da idromassaggio, incurante della temperatura di parecchi gradi sotto zero, mi crogiolo nel dolce abbraccio dell’acqua che arriva direttamente dalle viscere della terra a una temperatura di 40 gradi, e osservo le ultime carezze di sole sfiorare le piste da sci e le creste innevate che circondano il borgo di Bormio.

Verso occidente, la Cima Piazzi, coi suoi 3440 metri, domina l’orizzonte ancora inondata di luce. Solo poche ore fa, camminavo sulle straordinarie geometrie cristalline del ghiacciaio dei Forni, il più esteso delle Alpi, durante un’entusiasmante escursione con le ciaspole.

Difficile trovare un altro luogo dove, nell’arco di una giornata qualunque, si possa passare dal brivido della velocità sulle piste da sci alle suggestioni di un’avventura ad alta quota con le ciaspole per poi lasciarsi catturare dalle atmosfere rilassanti di uno dei centri termali più famosi delle Alpi.

Per concludere, stasera mi aspetta un incontro con la miglior enogastronomia del territorio, un concentrato di gusti e sapori che sanno d’antico, arricchiti dal carattere aspro e forte del “vino più alto d’Europa”, quello della Valtellina.

 

I Bagni di Bormio, una storia antica

Le fonti che alimentano il sistema termale di Bormio si trovano circa due chilometri sopra il paese. È difficile precisare a quale epoca risalga l’uso dei Bagni di Bormio, molti storici concordano nel riconoscere nella frase di Plinio “in jugis Alpium” (Naturalis Historia, II, 103) il riferimento alle acque calde della località alpina.

Il riconoscimento più importante delle loro virtù terapeutiche nel passato risale al VI secolo d.C., in una lettera che lo scrittore Aurelio Cassiodoro (segretario del re ostrogoto Teodorico) indirizzò al conte Vinosiado invitandolo a recarsi “Ad aquas Burmias” per curare la gotta.

Le acque termali scaturiscono dall’imponente massiccio dolomitico e calcareo dell’Ortles, in una zona scoscesa, racchiusa fra gli scisti del torrente Braulio e la dolomia principale dell’Umbrail.

Le acque fuoriescono da nove sorgenti – Pliniana, San Martino, Arciduchessa, Cassiodora, Zampillo dei Bambini, Ostrogoti, Nibelungi, San Carlo e Cinglaccia – ad una temperatura compresa fra 36° e 42° e sono chimicamente definite solfato-bicarbonato-alcalino-terrose. Si differenziano per le proprietà derivanti dai depositi fangosi, per la quantità di radioattività e per la presenza di ferro.

Ad esse sono state riconosciute nel corso dei secoli proprietà terapeutiche per la cura di malattie della pelle, delle vie respiratorie, oltre che per il trattamento di sindromi reumatiche e nel recupero di fratture e traumi articolari, ossei e muscolari.

È singolare che acque calde scaturiscano da rocce le cui sommità sono ricoperte da nevi perenni; Josia Simler in uno scritto del 1574 definì le acque di Bormio un “miracolo della natura”.

Le fonti termali alimentano tre stabilimenti: il complesso dei Bagni Vecchi, inserito in un ambiente naturale curato e ricco di vegetazione nelle vicinanze dell’antichissima chiesetta di San Martino, mantiene la caratteristica posizione che tanto ha affascinato i visitatori nel corso dei secoli, presentandosi arroccato fra speroni di roccia che si affacciano a strapiombo nelle vicinanze del Burrone d’Adda.

Poi c’è il Gran Hotel Bagni Nuovi, gioiello dell’architettura liberty, inaugurato nel 1836 e considerato l’albergo più lussuoso dell’alta valle fin dal XIX secolo, infine le Terme Bormiesi, situate nel centro della cittadina montana, che accolgono accanto agli spazi dedicati alle cure termali e alle cure estetiche anche un centro sportivo moderno con piscine pubbliche chiuse, semicoperte e dotate di idromassaggio.

 

Le Guide Ardite di Val Zebrù

Durante l’intera Prima Guerra Mondiale il massiccio Ortles-Cevedale fu terreno di una logorante guerra di posizione fra italiani e austro-ungarici. Per rimediare a un’iniziale sottovalutazione di alcune postazioni situate alle alte quote si dovette presto correre ai ripari, e per farlo occorsero uomini espertissimi di montagne e scalate, abili col moschetto quanto con la piccozza e la corda.

Fu così costituito il minuscolo corpo d’elite delle “Guide Ardite di Val Zebrù”.

Si trattava di un manipolo composto esclusivamente, o quasi, dalle migliori guide militanti negli alpini. Molti fra loro erano valtellinesi, come il malenco Nino Dell’Andrino o i bormini Stevanin Schivalocchi e Giuseppe Tuana; altri erano bergamaschi come Locatelli, oppure valdostani come Granil e Beneyton.

Anche il nemico disponeva di validissimi alpinisti e guide che sapevano il fatto loro e per lunghi anni, sulle più vertiginose vette del massiccio, si svolse una strana guerra condotta da pochi uomini annidati in postazioni inverosimili, sospesi sulle nubi e sui ghiacci.

Una delle prime azioni di rilievo delle Guide Ardite fu l’assalto alla postazione austriaca in vetta al Gran Zebrù. Fu composta una pattuglia sceltissima, comandata dal sergente Tuana e con i caporalmaggiori Canclini, Granil, Schivalocchi e Dell’Andrino.

L’impresa, al limite della follia, riuscì e i nostri, aprendo una nuova via sul Gran Zebrù, si trincerarono sull’anticima della montagna, a quota 3.800 metri, nel luogo che fu poi detto “Nido d’aquile”.

L’anno successivo Dell’Andrino e alcune Guide Ardite si trovavano proprio sul “Nido d’aquile”, postazione che era diventata una spina nel fianco per gli austriaci. Decisi a far sloggiare gli alpini, dopo che una cannonata aveva messo fuori combattimento l’intero presidio italiano tranne Dell’Andrino, gli austriaci presero a risalire la cresta ghiacciata per dare il colpo di grazia.

Visto arrivare il nemico, la guida non si perse d’animo, trovò la posizione migliore e mentre i suoi alpini feriti gli passavano le munizioni, mostrò al nemico la sua perizia di cacciatore di camosci. Dopo che i primi tirolesi caddero feriti, gli altri capirono che insistere sarebbe stato un suicidio e si ritirarono.

Si concludeva così il più alto scontro militare della storia, a quota 3810 metri, triste primato battuto solo di recente con l’apertura del fronte Indo-Pakistano nel Karakorum.

 

> L’itinerario: Sui sentieri delle Guide Ardite della Val Zebrù

 

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