“Instinct – Istinto Primordiale” è un film del 1999, interpretato da Antony Hopkins nelle vesti di un etologo inselvatichito e ammattito dopo anni di convivenza “alla pari” con i gorilla dei monti Virunga
C’è, nello svolgimento della trama, un passaggio interessante, quando il coprotagonista (Cuba Gooding Jr.) ha di fronte ail selvaggio Hopkins, impegnato a raccontare di come si stava meglio quando eravamo tutti cacciatori e raccoglitori, obietta ciò che tutti noi obietteremmo: cosa dovremmo fare? Rinunciare a tutto e tornare a vivere nelle caverne?
La risposta è (più o meno alla lettera): No, dovremmo solo rinunciare a un po’ di dominio, ad un po’ di controllo. È un prezzo troppo alto da pagare?
È una bella risposta, ed è una bella domanda: entrambe aprono le porte a interessanti spunti di riflessione.
“Per molte persone il “paesaggio ideale” delle Alpi è ricco di siepi e gruppi di alberi, coltivato, con prati possibilmente variopinti, articolato ma tale da consentire una facile visione dell’insieme. In breve: l’immagine del paesaggio culturale agricolo, nel quale l’ordine regna sovrano…”
Cominciamo dal tema del dominio. Come non essere d’accordo con il selvaggio Hopkins?
Chiunque concorda sul fatto che rinunciare alla pretesa di essere i padroni del mondo, smetterla con lo sfruttamento cieco e indiscriminato delle risorse limitate dell’ecosistema è cosa buona e giusta, oltre che essenziale per la nostra stessa sopravvivenza.
Certo, passando dall’ideale alla pratica le cose vanno come vanno, ma è chiaro che oggi il dominio e sfruttamento sono unanimemente riconosciuti come disvalori.
Eppure la risposta del nostro selvaggio chiama in causa anche qualcos’altro: il controllo.
Qui le cose si complicano, perché, se tutti pensiamo che sia una cosa cattiva credere di essere i padroni della natura, quasi tutti riteniamo invece un valore prendercene cura.
Il mondo è la nostra casa ed è nostro diritto/dovere occuparci di esso e in qualche modo controllarlo.
Le radici di questa convinzione affondano profondamente nella nostra storia e cultura e qui possiamo limitarci a cogliere solo qualche suggestione di un tema davvero vastissimo.
Facendoci strada nell’argomento più con la scure che con il bisturi, possiamo affermare che nelle culture precristiane le divinità avevano il ruolo di ordinatori della natura, alla cui azione regolatrice si doveva la trasformazione del caos primigenio in un cosmo ordinato e il mantenimento di quest’ultimo.
In queste cosmologie il ruolo assegnato all’uomo non era poi tanto diverso da quello spettante agli altri esseri viventi.
In una di queste culture, quella ebraica, si fece però strada, con sempre maggior forza, la concezione rivoluzionaria del dio come creatore alla cui volontà e potenza si deve il passaggio dal nulla al qualcosa.
In questa visione a Dio si affianca un uomo ordinatore: Adamo è il custode del giardino, dio porta al suo cospetto gli animali e lui dà loro un nome, cioè assegna a ciascuno di essi un ruolo, una funzione.
Da notare come, nel fare ciò, l’uomo afferma la sua superiorità rispetto al resto del creato e la sua somiglianza alla divinità: dio ha creato il mondo con la parola e l’uomo, in cui alita lo spirito di dio, con la parola lo ordina e lo controlla.
Con la diffusione del cristianesimo questa prospettiva è diventata patrimonio comune della cultura occidentale e ha attraversato i secoli per arrivare fino a noi, non solo come astratta filosofia, ma come realtà concreta, visibile e tangibile nel paesaggio che ci circonda.
Nel suo intervento al convegno “Wilderness e turismo integrato – Opportunità o conflittualità?” Andreas Gotz, per diversi anni direttore della CIPRA, sottolineava quanto segue:
“Numerose ricerche hanno dimostrato che per molte persone il “paesaggio ideale” delle Alpi è ricco di siepi e gruppi di alberi, coltivato, con prati possibilmente variopinti, articolato ma tale da consentire una facile visione dell’insieme. In breve: l’immagine del paesaggio culturale agricolo, nel quale l’ordine regna sovrano“.
Da un’inchiesta della rivista tedesca “Natur” risulta che solo il 19% dei tedeschi apprezza una natura “intatta”.
Questo atteggiamento ha profonde radici nelle paure arcaiche di ciò che è selvaggio. Questo si può comprendere facilmente nell’esempio del bosco. Harrison scrive: “Per quanto concerne l’ordinamento sociale medioevale (…) i boschi erano foris (l’al di fuori).
In essi vivevano i reietti, i folli, gli amanti, briganti, eremiti, santi, lebbrosi, esuli, marginali e gli uomini selvatici. Dove dovevano andare altrimenti?
Al di fuori della legge e della società umana si era nel bosco. Il bosco è bensì anche uno spazio vitale, ma è l’opposto del luogo in cui nessuno deve aver paura”.
Tra questi due estremi corre lo spartiacque tra cultura e natura: qui il Giardino dell’Eden (cristiano), lì gli spazi selvaggi (pagani)”.
Queste riflessioni ci aiutano a spostare il discorso dai massimi sistemi all’esperienza e al sentire quotidiano e ci indirizzano a un tema molto più consono alla nostra sensibilità di camminatori: quello del nostro rapporto con la wilderness, la natura selvaggia e incontaminata.
Non è un argomento ozioso quello che stiamo affrontando (quello cioè del controllo, della gestione della natura), soprattutto per noi europei.
Nello stesso intervento sopra citato Gotz faceva, infatti, notare come: “Una wilderness – che è sempre stata tale, e come tale si è conservata – è pressoché scomparsa in Europa”.
Noi non possiamo rimpiazzare questa wilderness “perduta”, ma possiamo cercare di lasciarla rinascere di nuovo […]. Ciò comporta la rinuncia allo sfruttamento economico e avvia di solito un processo di rinaturazione.
Questo nuovo tipo di wilderness, localizzato perlopiù nelle aree centrali di parchi nazionali, implica l’abbandono dell’agricoltura e della selvicoltura, nei fondovalli così come sugli alpeggi […].
La wilderness non è quindi necessariamente la foresta vergine – in Europa ormai pressoché sconosciuta – ma significa piuttosto lasciare libero corso alla natura, abbandono dello sfruttamento”.
Sono affermazioni molto forti, che si scontrano con il nostro più immediato sentire e con le esperienze che, da camminatori e frequentatori degli spazi naturali, facciamo costantemente.
Siamo abituati a frequentare una montagna dove l’uomo è presente da secoli, se non da millenni, e dove, al retrocedere delle attività tradizionali come agricoltura e pastorizia, corrisponde un degrado del territorio sotto l’aspetto estetico e strutturale.
Sono istanze che ci ripetiamo continuamente: serve il presidio del territorio, quando le valli si spopolano la montagna muore. In sostanza serve l’uomo custode, titolare del diritto/dovere al controllo e senza del quale si va verso il caos.
Abbiamo certamente molte buone ragioni per ritenere fondata questa credenza, ma non possiamo ignorare alcune interessanti eccezioni che ci devono far riflettere.
Ci sono aree del nostro territorio dove, per svariate ragioni, la presenza umana è venuta meno, senza per questo portare a un deterioramento del paesaggio e del territorio, anzi!
Si pensi ad esempio all’area del Parco della Val Grande, un terirtorio che per secoli è stato antropizzato ma che, attorno alla metà del secolo scorso, ha subito un processo di quasi completo spopolamento.
Proprio il recesso dell’uomo ha consentito lì il ricostituirsi della più vasta area di wilderness delle Alpi, non una wilderness originaria, ma “di ritorno”.
Un luogo dove la natura ha ripreso il controllo di se stessa, apparentemente senza sentire più di tanto la nostra mancanza…
Questi fenomeni di “rinaturalizzazione” non accadono solo nelle aree remote, ma si verificano anche in luoghi ben più domestici come le periferie delle aree urbane dove il recesso dell’attività agricola ha ridato campo libero a boschi e brughiere.
Quante volte ci siamo trovati a osservare quel tipo di paesaggio trovandolo caotico e triste e rimpiangendo l’ordine bucolico imposto dall’agricoltura? Eppure proprio quel caos è il calderone in cui ribolle una libera biodiversità!
È il caso di ribadirlo: non ci stiamo schierando in favore di una crociata per l’assoluta rinuncia ad ogni intervento dell’uomo sulla natura.
Semplicemente abbiamo voluto considerare alcuni aspetti dell’intelligente domanda da cui siamo partiti e che ancora rimane aperta e, a nostro parere, prodiga di stimoli positivi: rinunciare a un po’ di controllo… è un prezzo troppo alto da pagare?
In conclusione, visto che, da buoni camminatori, siamo convinti che si pensi con i piedi oltre che con la testa, o almeno che le idee nate camminando siano più limpide e sincere, vi proponiamo un paio di escursioni proprio nel Parco Nazionale della Val Grande, giusto per sentire sulla pelle il gusto di quella wilderness di cui tanto abbiamo qui sproloquiato.
Traversata della Val Grande: da In La Piana a Colloro
Traversata della Val Grande: Da Fondo Li Gabbi a In La Piana