LUNIGIANA: la cultura della PIETRA
Magnifica terra, ricca di storia e tradizioni, che prende il nome dalla luna; qui il sacro e il profano, leggenda e realtà, fanno rivivere suggestioni d’altri tempi.
L’essenzadella Lunigiana va ricercata nella sua componente primordiale: la pietra.
Le statue stele, i capitelli delle pievi, le cinta merlate dei castelli, le modeste mura degli aggregati rurali, gli enigmatici faccion, gli oggetti d’uso e di lavoro, sono solo alcuni dei simboli della valle della Luna.
E tutti fanno capo sempre a lei, all’arenaria, una pietra povera rispetto a quella delle vicine Apuane ma che non ha causato estrazioni e deturpazioni ambientali. Se le Alpi toscane sono state sfregiate da cave di marmo a cielo aperto, altrettanto non si può dire delle colline lunigianesi: qui la roccia è stata ferita solo da attrezzi semplici e antichi, guidati da mani sensibili e pazienti, capaci di creare aggraziate figure, come quelle che ornano splendidi capitelli delle pievi dei SS.Cipriano e Cornelio a Codiponte o di S.Paolo a Vendaso.
In Lunigiana, terra di fede, sono tante le chiese parrocchiali e priorati che custodiscono nel loro interno pregevoli bassorilievi; addirittura nella pieve di S.Stefano di Sorano a Filattiera, la pietra “sacra” convive con quella “profana” delle statue stele.
Questi idoli pagani realizzati dai Liguri-Apuani, alti anche un metro e mezzo, riproducono in maniera arcaica figure umane che, in base alle armi che impugnano, agli amuleti che indossano, all’evoluzione delle linee somatiche (nelle più antiche la distinzione tra capo e tronco è appena percettibile), sono databili in un periodo storico compreso tra l’Eneolitico e l’avanzata età del Ferro.
Cinquantatrè di queste figure antropomorfe sono raccolte nel castello del Piagnaro a Pontremoli, e precisamente nel celebre “Museo delle statue-stele lunigianesi”.
Seppure le effigi di pietra siano diventate ambasciatrici della Lunigiana sarebbe riduttivo identificare unicamente in queste divinità guerriere una terra che, per storia e tradizioni, non ha niente da invidiare alla Toscana più conosciuta.
Ed è sempre lei, la pietra, ad assurgere protagonista! In maniera arcana, come nei faccion dai volti grotteschi, posti sui portali delle abitazioni per allontanare gli spiriti malvagi; in maniera imponente, come le cortine merlate che disegnano la sommità delle colline.
Sono fortezze a guardia del territorio; a volte snelle e superbe come la Verrucola Bosi a Fivizzano e il castello di Monti a Licciana; a volte compatte e severe come l’incantevole castello di Malgrate o quello massiccio della Brunella ad Aulla, sede del Museo di Storia Naturale. E dove non sono presenti antichi castelli, rifugi dell’esule Dante, si elevano eclettiche torri fortificate; il più delle volte ne restano solo le vestigia, come a Mulazzo (Centro Malaspina), borgo fortificato in posizione dominante sulla pianura.
La pietra turrita dei signori Malaspina non soffoca quella eretta a dimora del Signore dove i pellegrini trovavano asilo ed assistenza. Spinti da forti motivazioni spirituali viaggiavano verso il centro della Cristianità, lungo la via Francigena, tra mille difficoltà, pericoli e privazioni, cercando conforto nella fede e negli “ospitali”, opere di misericordia che offrivano un caldo giaciglio e un altare dove pregare.
Di pieve in pieve, di borgo in borgo, sempre sulle orme di una delle più importanti direttrici storiche europee, ecco comparire la pietra che si proietta attraverso torrenti ed orridi.
Blocchi di arenaria che in passato, adagiati su sponde precarie e insicure, non sempre riuscivano ad opporsi alla furia delle acque; ecco perché nel Medioevo la Chiesa beneficiava speciali indulgenze a chi si impegnava nella ricostruzione e manutenzione dei ponti che, ancora oggi, si possono ammirare nei luoghi preclusi all’automobile, come quello di Groppodalosio, o nel cuore di borghi antichi, come a Bagnone.
Quando l’irruenza dei torrenti o la distanza delle rive non consentiva la costruzione delle opere in pietra, l’attraversamento dei corsi d’acqua era permesso, dietro congruo pedaggio, solo alle zattere in legno. A Villafranca, la catena che permetteva il traghettamento da un argine all’altro del Magra, è conservata nel Museo Etnografico della Lunigiana.
Oggetti della vita quotidiana e manufatti artigianali, sistemati per temi e cicli di lavorazione, sono raccolti nei suggestivi spazi del museo. La canapa, il grano, il latte, le castagne, la lavorazione del ferro e della pietra, sono simboli di una vita di stenti e povertà, che si possono scoprire anche nella penombra di un castagneto o alla trasparenza di un pascolo d’altura.
Il ricordo dell’antica civiltà rurale trova corpo negli anziani, restii all’idea di abbandonare le loro radici che attecchiscono nella storia, nelle tradizioni, nelle proprie cose.
Nelle abitazioni della vallata di Zeri è ancora possibile stupefarsi nel vedere la preparazione artigianale e la stagionatura di sapidi e profumatissimi formaggi, ottenuti dall’allevamento allo stato brado della zerasca, una razza ovina apprezzata anche per la rusticità e la bontà delle sue carni giovani.
Ai margini dei pascoli o nel silenzio della faggeta resistono all’incalzare del tempo le “piagne”, lastre di arenaria (eccola di nuovo!) sovrapposte a copertura dei tetti delle case, dove convivevano gli animali, a pianterreno, e gli uomini al piano superiore (accessibile solo a monte). Un esempio integro e suggestivo di questa tipologia rurale è il villaggio abbandonato della Formentara, tra Coloretta di Zeri e Cervara, lungo il Trekking Lunigiana.
Qui i prati e i boschi si profumano di mirtilli, lamponi e funghi, frutti del sottobosco tanto amati e ricercati dai lunigianesi, che oggi coronano questa disciplina più per passione che per necessità. Ma c’è ancora chi raccoglie il Boletus edulis per confezionarlo fresco, secco, sott’olio o proporlo a tavola nel rispetto di antiche ricette.
Il pane di Lunigiana
Dall’alta valle, scendendo di quota, quando oramai il mare lo si può “indovinare” oltre i monti spezzini, compaiono i castagneti, custodi di riti e consuetudini che cadenzavano la vita quotidiana della gente. Lo sfruttamento del castagno permetteva l’utilizzo del legname per ottenere combustibile, utensili da lavoro, mobilio e, soprattutto, farina, unica fonte di sussistenza alimentare per tante comunità della valle.
Nel Basso Medioevo ebbe notevole incremento la diffusione di questa latifoglia, tanto che ben due terzi della Lunigiana erano “vestiti” da castagneti. L’albero del pane ha così marcato la vita dei lunigianesi, sia nell’economia, sia nel folklore, sia nella gastronomia; è giusto quindi parlare di civiltà del castagno. Il frutto poteva essere consumato fresco, secco, arrostito, lessato e, soprattutto, macinato a farina, prodotto primordiale alla base di tanti piatti tipici del bacino della valle del Magra.
Ma andiamo per ordine! La castagna veniva raccolta in autunno e, fino agli anni ‘50, vigeva una vera e propria regolamentazione della “castagnadura”: in molti paesi il parroco annunciava la “banditura” (generalmente il 29 settembre in occasione della festa di San Michele) e da quel giorno il bestiame veniva ricondotto in stalla mentre i proprietari dei castagneti, insieme alle “raccoglitrici” (alle quali spettava vitto, alloggio e un quintale di farina dolce) davano inizio alla raccolta. La prima passata, definita “a scorrere”, veniva effettuata per liste, ovvero venti e più persone, disposte in linea, risalivano insieme la china del castagneto.
Alla seconda passata, operata a distanza di circa una settimana, seguiva solitamente la terza detta “a tappeto”; dopo di questa, o comunque in occasione di Sant Martino (11 novembre), veniva meno il diritto di proprietà e chiunque poteva accedere al bosco per effettuare la “ruspadura”.
Le castagne una volta raccolte venivano sistemate nei casoni, nei seccherecci o nelle abitazioni stesse provviste di un gradile; qui essiccavano al calore e al fumo di un focolare lento. Non solo! In questo spazio, definito localmente “grada”, la famiglia contadina cucinava e accoglieva i vicini durante le veglie invernali. Trascorsi venti-venticinque giorni, il frutto una volta disidratato, era pronto per essere sgusciato mediante “battitura” e selezionato attraverso la cernita.
Giungeva così il momento dalla molitura, operata nei mulini a ruota idraulica orizzontale; qui il connubio tra pietra e acqua dava vita al “pane della Lunigiana” che in parte spettava al mugnaio quale ricompensa (la moldura). L’acqua dei torrenti veniva guidata lungo condotte che la forzavano contro le pale del ritrecine; l’energia cinetica azionava così la macina al piano superiore.
Le castagne introdotte nella tramoggia (cadevano nella corba per poi essere rotte, triturate, polverizzate, ad ogni giro della macina superiore mobile su quella inferiore fissa detta ceppo. Ancora oggi è possibile assistere al rito della molitura; infatti, seppure ne siano rimasti pochi, ci sono mulini che da novembre ad aprile celebrano l’indissolubile matrimonio tra l’acqua e la castagna. Ad esempio nel comprensorio della medicea e fiorentina Fivizzano, si può visitare un mulino presso l’antico borgo di Arlia.
Le dimensioni della struttura, con l’alloggio del mugnaio, il ricovero per i muli, e le tre macine adibite alla frantumazione del grano, del granoturco e della castagna, dimostrano come più comunità della zona facessero riferimento al mulino di Arli.
Il fuoco, il testo, il cibo
Il lavoro e la raccolta nel castagneto, la macinazione nel frantoio, non sono altro che le diverse fasi di un ciclo che culmina nella preziosa e saporita farina di castagne, tipica della cucina povera del bacino mediterraneo. In particolare quella lunigianese ha subito marcate influenze da parte delle regioni limitrofe: ad esempio i testaroli sono parenti della piadina emiliana ma al tempo stesso vengono conditi con il pesto ligure, oltre ché col pecorino grattugiato.
Anche le verdure ripiene, come zucchini, cipolle, cavoli, tradiscono usanze culinarie della vicina Liguria. Restano comunque i testaroli il piatto per eccellenza della val di Magra; indispensabile per la preparazione è il “testo”, cioè una teglia rotonda in ghisa o terracotta dove viene colata, per uno spessore di circa 1 cm, la pastella abbastanza fluida, fatta di farina, sale e acqua; sistemato il coperchio conico si lascia sul fuoco la sfoglia per 8-9 minuti circa. Il disco di pasta così ottenuto, viene tagliato in pezzi quadrangolari di 4-5 centimetri e immerso in acqua bollente per pochi minuti.
Nei testi viene preparato anche il “mòghiolo”, dolce a base di farina di castagne, completamente ricoperto di ricotta. Di farina di grano sono invece le focaccette, dette localmente “panigacci”, cotte sempre nelle formelle di terracotta e accompagnate da formaggi freschi, testa in cassetta e mortadella. Tra gli insaccati del luogo va indubbiamente segnalata la spalla cotta (eccezionale), il culatello, il salame; d’altra parte in Lunigiana non mancano allevamenti di bestiame, in particolare di suini.
Il discorso gastronomico meriterebbe maggiore approfondimento ma nell’ambito di un articolo questo non è possibile; accontentiamoci allora di sapere che nella valle della Luna, facendo ricorso alla freschezza dei sapori locali, trionfano piatti poveri ma creativi; un motivo in più per scoprire questa terra, ricca di storia e tradizioni.