Sulmona contiene l’essenza dell’anima abruzzese. Cordiale e selvatica. Appariscente e nascosta. Accogliente ma austera. Adagiata in un’ampia conca valliva protetta dalle imponenti muraglie della Majella e dal gruppo montuoso del Morrone, anche nell’aspetto ambientale dimostra il carattere fiero di questa terra d’Abruzzo.
Protesa verso le colline laziali, desiderosa di “comunicare” con il mondo cittadino e universale di Roma, che dista solo un’ora di viaggio, ma fieramente aggrappata alla montagna. In questi luoghi, fin da epoche antiche al centro di eventi sociali, culturali e politici, settantanni fa si intrecciarono storie e destini di uomini che si fronteggiavano da nemici, ma divennero, nella necessità comune di sopravvivere, solidali per raggiungere un comune obiettivo: la libertà.
Una moderna autostrada oggi collega velocemente Sulmona verso occidente alla “capitale”, e in ancor meno tempo, in direzione est, alla costa adriatica, ma prima dell’avvento della tecnologia era senza dubbio un luogo “lontano”, nascosto e defilato dalle “strade” che da Roma portavano in ogni direzione.
Forse per questo, alla fine del 1200, Fra’ Pietro da Morrone l’aveva scelta per il suo eremitaggio, interrotto, soltanto per breve tempo, dai dignitari del Papa che lo pretesero in Vaticano. Passò alla storia con il nome di Celestino V, ma il suo papato durò soltanto quattro mesi; l’ambiente di trame e intrighi politici della corte vaticana non riuscì a corrompere la fede ascetica del frate, che tornò a ricercare l’anima del mondo e degli uomini nei suoi eremi, tra le impervie pareti di roccia della Majella.
Per motivi molto diversi, sette secoli più tardi, altri uomini avrebbero scelto Sulmona e il suo isolamento come ideale luogo di confino per prigionieri provenienti da paesi lontani.
Impossibile definire una classifica dei piccoli borghi italiani sulla base del fascino e della bellezza… tuttavia, in questa ideale competizione, Sulmona avrebbe sicuramente un posto nella “zona alta”.
Importanti le tracce dell’epoca imperiale romana, riemerse dagli scavi del tempio di Ercole Curino, ai piedi del Monte Morrone. Luogo in cui si racconta sorgesse anche la villa di Publio Ovidio Nasone, uno dei massimi poeti latini, nato nel 43 a.C. a Sulmona.
In epoca medioevale questi territori vissero sotto il dominio degli Svevi, e a Federico II, nel corso del XIII secolo, si deve la costruzione di straordinarie opere civili, come l’acquedotto, uno dei monumenti dell’epoca più importanti dell’Abruzzo. Durante il suo regno, Sulmona divenne capitale della provincia della Marsica, sede della curia e del “Giustizierato d’Abruzzo”, uno degli undici distretti amministrativi del Regno di Sicilia.
Passata agli Angioini dopo la caduta degli Svevi, Sulmona perse la sua importanza politica ma continuò a crescere, grazie alla produzione di manufatti di alta classe, come quelli della Scuola Orafa Sulmonese, allo sviluppo dell’industria della carta e al mercato delle stoffe preziose, tra cui la famosa “seta sermontina”.
Alla fine del XIV secolo in città si sviluppò anche un’importante attività di stampa. La ricchezza di questo piccolo borgo tra le montagne abruzzesi venne testimoniata da opere architettoniche sempre più belle e importanti, tra cui il Palazzo dell’Annunziata con il suo campanile alto 65 metri.
Due volte all’anno, in aprile e a Ferragosto, Sulmona attirava una folla di persone in occasione della “Giostra Cavalleresca” che si teneva nella sua piazza principale. Abili cavalieri muniti di lunghe lance si sfidavano in acrobazie ed evoluzioni a cavallo. Andata in disuso nel 1600, la “Giostra Cavalleresca” è stata ripristinata come evento folcloristico alla fine del secolo scorso e oggi attira a Sulmona migliaia di turisti.
Per gli stessi motivi che avevano spinto Frà Pietro a rifugiarsi tra queste montagne – lontananza dalle principali vie di comunicazione – e altri più concreti sotto il profilo ambientale – un territorio impervio e facilmente presidiabile – il comando militare italiano, ai primi del 1900, decise di istituire, a Fonte d’Amore, frazione della città proprio sotto le pareti del Monte Morrone, un campo di detenzione per prigionieri di guerra.
Durante il primo conflitto mondiale, qui vennero ospitati soldati di nazionalità austro-ungarica catturati sui vari fronti europei, che vennero impiegati localmente in operazioni di rimboschimento, lavori agricoli e artigianali. L’epidemia “spagnola”, nell’inverno del 1918, provocò all’interno del campo la morte di oltre 400 persone, sepolte in seguito nel sacrario di guerra austro-ungarico del cimitero comunale di Sulmona.
Il campo di prigionia, chiamato Campo 78, divenne “famoso” durante la Seconda Guerra Mondiale; a Sulmona arrivarono oltre 3000 detenuti militari, principalmente inglesi e americani, ma anche sudafricani e neozelandesi, catturati sui fronti africani. Per i POW – Prisoner Of War – a prescindere dalla condizione di detenuto, la vita era meno peggio che in altre situazioni; secondo le testimonianze, vennero trattati umanamente dagli italiani e l’ambiente era tutto sommato gradevole… sopra il campo, l’antico Eremo di Fra’ Pietro di Morrone dava un senso di protezione mistica dalle atrocità della guerra.
Oggi di quel luogo rimangono, a memoria di un capitolo difficile della nostra storia, alcune baracche che ancora conservano, sui muri interni, disegni e graffiti dei prigionieri.
Improvvisamente, a partire dall’ottobre 1943, queste terre rimaste fino ad allora ai margini della storia diventano epicentro degli eventi bellici. Dopo lo sbarco delle truppe alleate a Salerno, sfruttando la complessa morfologia appenninica, il comando tedesco crea una linea fortificata di difesa nel punto più stretto della penisola, collegando Ortona, affacciata sul mare Adriatico, alla foce del Garigliano, confine tra Lazio e Campania sul Tirreno. Punto strategico della Linea Gustav è Montecassino, che domina l’unica via di accesso “facile” tra sud a nord, la via Casilina.
La Majella e Sulmona, fino ad allora infinitamente lontane dagli eventi bellici, si trovano improvvisamente in prima linea: le armate tedesche, infatti, presidiano il valico strategico di Guado di Coccia, a pochi chilometri dalla città, unico punto di passaggio “facile” di tutto il massiccio, a circa 1600 metri di quota. Sul versante opposto, quello adriatico, le truppe di liberazione sono già arrivate sotto alle pendici della montagna.
Il Campo 78, nel frattempo, viene occupato dalle truppe di Hitler (ricordiamoci che, dopo la firma dell’armistizio con le truppe alleate, anche gli italiani che non hanno aderito alla Repubblica di Salò sono considerati nemici) e le condizioni per i prigionieri diventano molto pesanti.
Questo spingerà molti a tentare la fuga, con la speranza di ricongiungersi al loro esercito stanziato dall’altra parte della montagna.
Rischiando la vita in prima persona, la popolazione abruzzese diventerà un elemento fondamentale per la sopravvivenza e la fuga verso la libertà dei prigionieri inglesi e americani, accogliendoli e nascondendoli nelle proprie case, e dividendo con loro le poche risorse a disposizione.
Uomini e ragazzi, profondi conoscitori del loro territorio, diventeranno abili guide capaci di condurre, nei lunghi mesi dell’inverno 1943/44, questi soldati attraverso sentieri impervi fino a Casoli, paese sul versante meridionale della Majella, diventato una sede del comando Alleato.
Queste storie diventano presto un simbolo della voglia di riscatto del popolo italiano, e Radio Londra, organo ufficiale della comunicazione bellica angloamericana, durante le sue trasmissioni, prenderà l’abitudine di annunciare al mondo ogniqualvolta un prigioniero, fuggito dal Campo 78 di Sulmona, riuscirà a conquistare la libertà.
“Una stella sulla Majella”, apparentemente incomprensibile messaggio in codice, diventerà lo slogan usato dalla propaganda inglese per far sapere, a tutti coloro che lo comprendono, che un altro uomo è riuscito a fuggire da Sulmona per aggregarsi all’esercito di liberazione. Tra i tanti che in quell’inverno percorsero questo “sentiero della libertà”, spicca il nome di Carlo Azeglio Ciampi, diventato mezzo secolo dopo Presidente della nostra Repubblica.
La Linea Gustav cadrà definitivamente il 18 maggio del ’44, ma gli otto mesi vissuti nell’epicentro degli eventi bellici rimarranno per sempre nella memoria di quegli uomini e delle popolazioni di queste montagne, stimolati e conservati anche da una importante produzione letteraria di tanti ex-prigionieri che hanno pubblicato diari molto toccanti (“Spaghetti e filo spinato” di J.E. Fox, “Fuga da Sulmona” di Donald Jones, “Un pranzo di erbe” di John Verney, “Linea di fuga” di Sam Derry, “Libertà sulla Majella” di Uys Krige, solo per citarne alcuni) e spesso, a guerra finita, sono tornati a ringraziare quanti avevano contribuito alla loro salvezza.
La Majella è un gruppo montuoso calcareo, assolutamente simile, morfologicamente, ad alcune aree delle Alpi. La roccia sedimentaria grigia e gialla nasconde, come è normale in questo tipo di struttura, un mondo ipogeo altrettanto affascinante. La composizione calcarea, infatti, è idrosolubile e questo, nell’arco delle ere geologiche, ha favorito la creazione di voragini all’interno della montagna che solo per casi fortuiti vengono scoperte.
È il caso della Grotta del Cavallone, un magnifico anfiteatro ipogeo che si apre sul fianco orientale della montagna. Oggi si può facilmente raggiungere l’entrata, situata a circa 1300 metri di quota, salendo 174 gradini scavati direttamente nella roccia. Durante la Seconda Guerra Mondiale, questo riparo naturale fu utilizzato come rifugio dagli abitanti di Taranta Peligna, paese che sorge alle pendici della montagna, per sfuggire alle rappresaglie delle truppe tedesche. La grotta, avendo una temperatura costante di 10 gradi, fu preziosa per sopravvivere alle temperature rigide dell’inverno imminente in alta quota; gli sfollati, rimasti nascosti per oltre un mese, portarono con loro alcuni animali, in maggioranza pecore, con i quali si cibarono.
Le donne e i bambini si rifugiarono nella Sala di Aligi, che ancora porta i segni di quel lungo mese, mentre gli uomini, in maggioranza, si rifugiarono nella Grotta del Bove, a pochi passi da quella del Cavallone, probabilmente per il più rapido e facile accesso e quindi la maggiore esposizione agli attacchi esterni.
La grotta, però, aveva già avuto un momento di notorietà… al suo interno è infatti ambientata la storia della “Figlia di Iorio”, tragedia pastorale scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1903. Le scene della tragedia all’interno della caverna sono tutte ambientate nel grande antro d’ingresso della Grotta del Cavallone, poi rinominato per questa ragione Sala di Aligi.
Ancora l’acqua è protagonista di un altro prodigio, qualche chilometro più a valle. Il fiume Verde, nei pressi dell’abitato di Fara San Martino, ha scavato un impressionante canyon, uno dei più lunghi valloni appenninici, che risale verso il Monte Amaro con un dislivello di ben 2300 metri!
Prima di sbucare nella vallata di Fara, le due pareti rocciose, che sembrano salire con la loro verticalità verso l’infinito, sono separate da un “taglio di coltello” che non supera i due metri di larghezza. Si percorre questo angusto budello per qualche decina di metri, e all’improvviso, nascosta agli occhi del mondo, si svela la magia della creatività umana, rappresentata dai resti di un’antica abbazia medioevale. Un luogo che da solo vale questa avventura.