Nel cuore dell’Amazzonia, una piccolissima comunità indigena ha scelto di vivere in una zona della foresta dichiarata inaccessibile anche dal governo ecuadoregno.Un fotoreportage esclusivo, per documentare un’area naturale biologicamente ricchissima e minacciata – come troppo spesso accade – dalle estrazioni petrolifere.
La canoa è lunga quasi dieci metri e Don Cesar, aiutato da Marcelo, suo figlio, la carica con svariate taniche di benzina, cibo per cinque giorni e una decina di litri di acqua. Il piano è di inoltrarci nel Parco Naturale di Yasuni e di raggiungere una comunità indigena Houarani nel cuore della selva amazzonica. Partiremo da Nueva Rocaforte, villaggio di frontiera tra Ecuador e Perù tagliato quasi dall’equatore, che avevamo raggiunto dopo dieci ore di navigazione su una “lancia” locale. Da qui dovremo navigare ancora per sei ore, addentrandoci nel parco. Cercare il villaggio Houarani su GoogleMaps è inutile, le immagini satellitari non mostrano altro che un verde sconfinato solcato dai fiumi che serpeggiano come vene sinuose, apparentemente senza ordine.
Stiamo per entrare in un paradiso terrestre: un hotspot di biodiversità. Di luoghi al mondo simili a questo ne esiste qualcuno, ma Yasuni è speciale. È la quintessenza della vita sul pianeta Terra, un concentrato di biologia che gli scienziati dicono essere unico, tanto da essere uno dei pochi centri di megadiversità terrestri. Questo termine (di recente introduzione in biologia) è stato appositamente coniato per quella decina di siti sparso sulla Terra, la cui ricchezza di biodiversità è veramente unica.
In 9800 chilometri quadrati (un’area poco più vasta dell’Umbria) si trovano non meno di 2700 specie arboree, 596 specie di uccelli (un terzo di tutte le specie endemiche del bacino amazzonico), 150 specie di anfibi (record mondiale) e 100mila specie di insetti. In un ettaro potete trovare più specie arboree native di quante ne crescano negli Usa e in Canada messi insieme. Callitrix pigmaea, la scimmia più piccola del mondo (la si tiene tra due dita), vive in questa riserva.
Ma non solo, nella foresta di Yasuni abitano anche due tribù che hanno deciso di non avere contatti col mondo esterno e che vivono in “isolamento volontario”, i Tagaeri e i Taromenane. Per loro, il governo ha designato un’area dal nome eloquente “Intangible zone”. È assolutamente vietato penetrare all’interno di quest’area, anche perchè chi ci provasse andrebbe incontro a guai seri, visto che gli intoccabili hanno promesso morte a chiunque provasse a contattarli.
Don Cesar, al secolo Cesar Rodas, 65 anni, vive a Nueva Rocaforte, un autentico villaggio di frontiera, dove fino a poco tempo fa circolavano trafficanti colombiani, taglialegna illegali alla ricerca dei migliori alberi di cedro, cacciatori di pelli di giaguaro, lontra e caimano, e avventurieri o semplici sognatori. Don Cesar conosce ogni angolo della foresta. “Mio padre era un grande pescatore, con lui andavo a pesca di piraña e paiche” (quest’ultimo un autentico colosso che raggiunge i due metri di lunghezza), spiega orgoglioso Don Cesar, che scopro essere stato anche cacciatore di giaguari e consulente-guida per le imprese petrolifere.
Quando nel ’72 Texaco perforò il pozzo di Tiputini ero li’, ed ero li’ anche quando nel 1991 Petrobras perforò il pozzo Ishpingo nel parco Yasuni.
Il punto è proprio questo: sotto Yasuni c’è il petrolio, sotto il parco giacciono le ultime importanti riserve di petrolio di un Paese che affoga in debiti contratti con i paesi più sviluppati. Il 20% delle riserve rimanenti, pari a 846 milioni di barili di greggio, riposano sotto l’hotspot di biodiversità, alcuni vecchi pozzi di esplorazione sono già lì, basta girare la valvola e cominciare ad estrarre il prezioso liquido.
Ad essere onesti, quel petrolio non è dei migliori: “gli anni del petrolio che sgorga a fiotti sono passati, ora rimangono riserve di peggiore qualità e più difficili da estrarre”, mi aveva spiegato a Quito – capitale dell’Ecuador – David Romo, un biologo dell’Universtà di San Francisco. Lo avevo incontrato nel suo ufficio in università, alle sue spalle c’era un acquario con due pallidi anfibi semi-immersi nell’acqua, alle pareti immagini della natura amazzonica.
Il rischio che corriamo è quello di veder sparire un lembo di foresta che racchiude la storia della vita terrestre come si è evoluta durante le ultime centinaia di migliaia di anni, per un bene che durerà al massimo venti anni, cioè fino al momento in cui si esaurirà il giacimento.
Romo, che per difendere questo parco ha fondato insieme a decine di scienziati il gruppo Scientists Concerned for Yasuni (Scienziati Preoccupati per Yasuni), mi spiega le origini di questo incredibile centro di biodiversità. Durante le fasi glaciali la foresta amazzonica si smembrava e diventava una sorta di steppa, alcune specie si estinguevano, altre si modificavano, altre ancora migravano. Durante questi grandi sconvolgimenti climatici rimanevano però alcuni lembi isolati di foresta, delle autentiche isole, dove i processi evolutivi continuavano a procedere formando la grandiosa biodiversità che caratterizza l’Amazzonia. Una di queste isole era proprio Yasuni, che essendo sull’equatore era anche quella più attiva dal punto di vista biologico. Al termine della conversazione con lui avevo pensato che in qualche modo sembra che solo gli scienziati siano in grado di immaginarsi la gravità della perdita di un sito come Yasuni, apparentemente uguale al resto della selva.
Risalire il Rio Yasuni è come entrare in un universo parallelo (neanche Avatar…) regno d’acqua e di piante. C’è acqua nel rio, nella foresta umida e nelle nuvole cariche di pioggia che galleggiano in cielo. Dopo qualche ora di navigazione Don Cesar ammette: “siete stati fortunati che non ha ancora piovuto”, dopotutto siamo nella foresta pluviale.
La foresta è invasa di suoni e richiami. Incontriamo scimmie, pappagalli di ogni dimensione e colore, tartarughe, farfalle celesti e grandi quanto il palmo di una mano. Passate molte ore Don Cesar avverte: “siamo vicini, ancora due anse e siamo arrivati dagli Houarani”. Poi mi chiede: “Hai portato le cartucce?”, confermo di averle con me. “E le medicine?”, confermo anche questo. “E i palloni e le bibite?”, anche quelle. Per Don Cesar è molto importate presentarsi con dei doni. Le cartucce sono per la caccia (consentita agli Houarani), che oggi si pratica più spesso con il fucile piuttosto che con la lunga cerbottana. Le medicine servono ai (molti) influenzati nella comunità. Palloni e bibite, per fare festa. Arrivato alla comunità Houarani di Kawimeno ho un momento di delusione: “ma non vivono in capanne, e indossano T-shirts…”. Insomma, non è come nelle foto sui depliants turistici. “No, queste tradizioni si stanno perdendo, solo alcune comunità veramente remote le mantengono, negli altri casi è per il turismo”, spiega Don Cesar. Infine alcuni giovani del villaggio ci mostrano come si caccia con la cerbottana, come si prepara il veleno con il Kuraro (una radice), come si pittura la pelle con alcuni estratti di piante della foresta. No, non tutto è perduto ed il turismo potrebbe aiutare a preservare questa cultura.
In breve tempo sono talmente assorbito dalla vita nella selva che accetto l’invito ad un bagno in una delle spettacolari lagune che circondano il villaggio (salvo scoprire poi che queste lagune sono invase dai piraña). Siamo giunti troppo tardi per vedere la comunità come viveva un paio di generazioni fa, ma è per fortuna ancora presto per vederla completamente occidentalizzata. Siamo testimoni di una fase di transizione culturale.
Mentre torniamo indietro, Don Cesar, che dopo il cacciatore e il consulente per le compagnie ha messo su un lodge per i turisti ed ha mandato due figlie a studiare turismo alla università, mi illustra il suo disegno:
Se iniziano ad estrarre il petrolio per Yasuni sarà la fine – premette – e spero che il parco diventi una meta turistica importante, che questo sia un incentivo per preservare la natura. In questo modo gli Houarani potrebbero conservare la loro cultura senza dover andare a lavorare per le compagnie petrolifere.
La canoa accarezza lentamente le anse del Rio Yasuni, ed io ho tempo per raccogliere le idee. Alcuni luoghi dovrebbero rimanere remoti, penso, accessibili solo a coloro disposti a passare dieci ore su una canoa, spalla a spalla con una guida Kitchwa (o Hourani). Alcune regioni tanto significative come questa dovrebbero restare intoccate e inaccessibili a chiunque: sono eredità per le generazioni future di un mondo naturale che rischia sempre più di scomparire. Sul nostro pianeta ci sono sempre meno angoli inaccessibili, non sarebbe saggio preservarne qualcuno per le generazioni future?
Questo reportage è stato possibile grazie al supporto di PNY e Fjall Raven, a cui va la mia riconoscenza per aver potuto mostrare al pubblico un luogo così importante per l’umanità.