Una somma infinita di prime (e, forse, uniche) volte, che svelano la parte temeraria e spericolata di me.
Questo 2019 mi regala la mia prima volta in Sud America: 15 giorni (voli inclusi) sono meno di quelli che avrei desiderato ed il minimo indispensabile per visitare una terra ricca di meraviglie ed estesa come il Perù. Li affronto con 12 kg scarsi di zaino (50L+20L), cioè con l’essenziale.
Scelgo sempre, se possibile, voli notturni, sia per abituarmi meglio al fuso orario, sia per riposare in volo, sia per avere a disposizione la giornata intera una volta a destinazione, e così ho fatto anche questa volta.
Anche il volo fa parte del viaggio ed è ricco di prime volte. E così, per la prima volta, i miei occhi increduli hanno visto la foresta amazzonica, il verde, immenso e incontaminato polmone della terra, e mi è sembrata davvero impenetrabile e inaccessibile.
E poi, improvvisamente – dopo kmq di distesa verde attraversata da fiumi che scorrono lenti – ecco l’imponente Cordigliera delle Ande. Pieghe e vette a non finire, tanto alte che sembra davvero di poterle toccare. Ecco la prima (di tante) emozioni che mi ha regalato il Perù.
Se vi dovessero chiedere “qual è la città in cui non piove mai e non splende mai il sole?” non si tratta di un trabocchetto. Quella città esiste davvero, ed è Lima.
Stretta tra le Ande e il Pacifico, con ben 10 milioni di abitanti, non respira. Ha un cappello di nuvole basse che impedisce il passaggio dei raggi del sole, ma anche dei temporali, 365 giorni all’anno.
Arequipa, Monastero di Santa Catalina
E così, è umida e desertica allo stesso tempo. Come contemporaneamente è sia ricca che povera e sia antica che moderna. Insomma, Lima è un casino. L’impatto con la città non è il massimo: l’albergo è “diversamente confortevole”.
In stanza fa talmente freddo che chiedo di spegnere l’aria condizionata, salvo poi scoprire che il gelo che sento nella schiena proviene dagli spifferi alla finestra.
La doccia è appena tiepida e scopro che in Perù (come in tutto il Sud America) non è consentito gettare la carta igienica nel water. Come prima scoperta non c’è male.
Il primo giorno è dedicato alla visita di Barranco, un tempo località balneare appena fuori città, oggi quartiere votato alla Street art, e all’adiacente e moderno distretto di Miraflores. Consigliatissimo il pranzo da Isolina, dove imparo che chiedere prima di ordinare non costa niente e salva la vita.
Per la prima (e credo ultima) volta assaggio una (squisita) tortilla di cervella di vacca. Alle 18.30 sembra già notte inoltrata e, stanca del viaggio, mi ritiro in camera. Da domani si cominciano a macinare chilometri.
Il secondo giorno visitiamo l’oasi di Huacachina, situata nei pressi della città di Ica, 300 km a sud di Lima. Per arrivarci si attraversa il deserto costiero peruviano, prevalentemente roccioso. Nonostante l’aridità, la Regione vive soprattutto di agricoltura (cotone, ceci, fagioli, asparagi, pecan e soprattutto viti).
È qui che ha origine il pisco, liquore peruviano utilizzato come base per il piscosour (e altri cocktail) bevanda nazionale del Perù (ma anche un po’ del Cile, con cui non scorre buon sangue), che personalmente ho trovato imbevibile (con limone, uovo e zucchero). Presso l’oasi il deserto è sabbioso e offre scorci suggestivi, oltre alla possibilità di fare sandboarding e corse sulle dune.
L’escursione in giornata è faticosa, ma merita: si percorre una piccola parte dei 30.000 km che compongono la Panamericana (subisco sempre il fascino delle strade, e questa – che dall’Alaska arriva sino alla Terra del Fuoco – è leggendaria), si attraversa Chorillos, distretto povero a sud di Lima, con le sue favelas colorate e traballanti ben visibili sul fianco della collina e si può assistere ad un indimenticabile tramonto nel deserto.
Grazie a un breve e spettacolare volo interno che sorvola prima il deserto e poi le Ande arriviamo ad Arequipa.
La città si trova a 2.335 m di altitudine, ai piedi del vulcano El Misti (5.822 mslm) e in piena zona sismica: camminando tra i palazzi del centro si vedono spuntare le cime di altri due imponenti vulcani (Ampato e Chachani), che regalano alla città un panorama davvero unico, soprattutto al tramonto, ma anche una certa instabilità.
Arequipa, Monastero Santa Catalina
“La città bianca” – per la pietra candida (“sillar”, simile al tufo) con cui sono costruite le abitazioni del centro storico – tipicamente coloniale e patrimonio unesco dal 2002 – brulica di peruviani in festa.
Il 15 agosto è l’anniversario della fondazione della città e in Plaza de las Armas, al cospetto della imponente cattedrale, si mangia e si balla nel segno della tradizione. Tradizione culinaria peruviana che vede quale protagonista il simpatico porcellino d’India (“cuy”), che sconsiglio di ordinare per cena ai deboli di cuore.
Il povero animale viene infatti servito arrosto, letteralmente intero: con tanto di musetto munito di narici e denti, zampe e unghie (sì, sembra di mangiare un topo). Delle città più di tutto amo i mercati, e dei mercati amo i colori, sempre splendenti, gli odori, anche se non sempre gradevoli, il chiacchiericcio tutto intorno e i gesti e gli sguardi degli ambulanti.
Arequipa, punto panoramico
Il Mercado San Camilo di Arequipa è su due piani: a quello inferiore si trovano i banchi tradizionali (frutta, verdura, carne, pesce..), quello superiore invece ospita una rivendita di animali vivi (conigli, galline, porcellini d’india..), i negozi di tessuti e un “ristorante” dallo standard igienico al ribasso e che richiede un discreto coraggio.
Decidiamo di pranzare con un bel panino ripieno: asado, immancabile cipolla rossa (è ovunque), insalatina, pomodori, patatine fritte (dentro il panino) e salsa o soffritto piccante a scelta, e di chiudere con un bel frullato di frutta fresca preparato al momento.
Ovunque si vendono le famose foglie di coca (e altre piante aromatiche con le quali i peruviani preparano infusi di ogni tipo): utili, così si dice, per contrastare il mal di montagna, possono essere masticate a crudo (e poi sputate) oppure immerse nell’acqua bollente per un mate fumante.
Le molteplici proprietà di questa pianta erano conosciute anche agli inca, che la utilizzavano come energizzante (per placare la fame e la sete), come pianta medicamentosa (nel corso o a seguito di interventi chirurgici) nonché nel corso dei riti religiosi.
Ovviamente, dato che attraverso la raffinazione delle foglie si ottiene la cocaina, ne è vietata l’importazione. Potete importarne le bustine (tipo tè) oppure le caramelle.
Dopo pranzo, dedichiamo un po’ di tempo alla visita del Monastero di Santa Catalina. Cinto da spesse mura, questo Monastero è una piccola città nella città.
Vale la pena perdersi per le sue strade, esplorare le stanze dove la vita delle monache scorreva lenta, e lasciarsi conquistare dalla bellezza dei colori accesi, delle piante rigogliose e dall’ordine che regna sovrano.
Uno spazio di silenzio e pace in pieno centro storico, uno spazio mistico visitabile – due volte a settimana – anche la sera, illuminato esclusivamente da candele che rendono l’atmosfera ancora più suggestiva.
Arequipa è un’ottima tappa per abituare il fisico all’altitudine, ed è il punto di partenza per la visita al Canyon del Colca.
Il quarto giorno la sveglia suona in piena notte, alle 3.30. Si parte poco dopo, con un piccolo pulmino e la guida, in direzione Canyon del Colca. Percorriamo l’unica strada che collega la città di Arequipa a quella di Chivay, che in linea d’aria distano soltanto 85 km.
Su asfalto, fanno 162 km di curve che dai 2.335 mslm si arrampicano ai 4.919 mslm del Mirador de Los Volcanes. Pur essendo notte fonda, trattandosi dell’unica via percorribile, la strada è incredibilmente trafficata: pulmini, autobus di linea, tir, automobili. Si sale a rilento, quasi in processione, mentre piano piano fa giorno.
Il quarto giorno il trasferimento da Arequipa a Chivay: l’alba sulla carrettera 1SE
Servono quasi tre ore (di meraviglia) per arrivare a destinazione: il paesaggio è lunare e desertico e l’unica traccia dell’uomo è l’asfalto, quasi invisibile nello spazio immenso. L’alba che infuoca la pampa è da brividi. A
Alle sei del mattino il termometro segna meno otto gradi e scendere dal pulmino per scattare qualche foto è uno shock. Ma come resistere alla tentazione? Qui, madre natura ci fa un regalo: assistiamo in diretta al vulcano Sabancaya fumante.
Sto scattando quando intravedo una nuvola che poco prima non c’era e punta dritta verso l’alto. I miei occhi non ci credono: guardo la terra vivere e sono grata.
Sono circa le sette del mattino quando arriviamo al Mirador, il punto panoramico – a 4910 mslm – dal quale si possono osservare ben otto vulcani: Ubinas (5675m), El Misti (5822m), Chachani (6075m), Ampato (6310m), Sabancaya (5876m), Husky Hualca (6025m), Mismi (5597m) e il Chucura (5360m).
Il Canyon del Colca, Cruz del Condor
È il passo di Abrapata pampa, il punto più alto della Carretera1SE nonché il passo asfaltato più alto delle Americhe. “Questo panorama è mozzafiato” non è mai stata frase più vera che in questa occasione: un passo giù dal pulmino per fare qualche foto dà letteralmente alla testa e l’aria (oltre che decisamente fredda) è effettivamente rarefatta.
Dopo una abbondante colazione a Chivay, mi preparo per il trekking alla Cruz del Condor, un percorso non impegnativo – ma comunque in quota – per ammirare il volo dei meravigliosi Condor andini.
La gola della vallata, in fondo alla quale scorre il fiume Colca, è profonda quasi 5000 m e dalla balconata dalla quale si assiste al volo la vista è vertiginosa.
Canyon del Colca, Peruanas
È il secondo canyon più profondo al mondo e sin dall’epoca pre-inca è coltivato a terrazzamenti: un esempio perfetto della capacità dell’uomo di vivere in armonia con la natura, anche quella più ostile.
La visita è consigliata la mattina presto, quando le correnti aeree facilitano il volo dei condor, non particolarmente leggeri (arrivano a pesare fino a 15 kg ed hanno una apertura alare di circa tre metri). Nonostante non abbiano una faccia troppo simpatica, vederli planare nel cielo blu, liberi e nel loro habitat naturale è emozione pura.
Lasciamo Chivay in direzione Puno, la città sulle sponde del lago Titicaca dalla quale ci imbarcheremo per raggiungere poi il paese di Luquina. Ripercorriamo in parte la carretera1SE, per poi addentrarci nel territorio della riserva naturale di Salinas y Agua Blanca.
Davanti a noi 268 km di curve: cinque ore buone immersi in una terra sacra per i peruviani e per questo incontaminata. Non vedo l’ora di arrivare. Sono mesi che sogno le acque trasparenti del lago Titicaca ad occhi aperti: 8000 kmq di blu a 3812 mslm.
Reserva Nacional de Agua y Salinas, verso Puno
La guida racconta che, visto dall’alto, il lago sembra avere la forma di un puma a caccia, nell’atto di agguantare un roditore. Si tratta di una credenza molto antica, tramandata dalle popolazioni indigene e quindi ben precedente all’uso dei satelliti, da cui oggi possiamo osservarlo con estrema facilità.
Dalla sua particolare forma, potrebbe averne tratto origine il nome: “Titi”, infatti, significa “gatto” (e quindi puma) e “Kaka” pietra. È un luogo magico e leggendario: dalle sue acque, dove sorge l’isla del sol, si narra siano emersi i fondatori della città di Cusco. La vita a Luquina scorre lenta. La popolazione locale si dedica 365 giorni l’anno al lavoro nei campi.
È sempre stato così. Da qualche anno, si è aperta al turismo e una o due volte la settimana le famiglie accolgono nelle loro case persone da ogni parte del mondo. Osservare i peruviani nella loro quotidianità e conoscere le loro abitudini è una esperienza da non perdere.
Vivono un piccolo mondo incantato fuori da ogni logica moderna: non c’è riscaldamento nonostante le temperature la notte scendano ben sotto lo zero, l’elettricità non è diffusa, si lava tutto a mano, si mangia e si beve soltanto quello che la terra offre. Si parla, principalmente, l’antica lingua aymara e, con i turisti, lo spagnolo.
Tramonto sul Lago Titicaca
Assistiamo al tramonto sul lago Titicaca, uno dei più incredibili della mia vita: un cielo così terso, a 3890 mslm, che ho creduto di poter toccare la luna, una visuale ampia da ovest ad est, i colori che cambiano dalle tonalità del rosso a quelle del viola e del blu.
Ma la sorpresa più grande è arrivata dopo. Quando è scesa la notte e il cielo si è acceso di una luce diversa: quella della Via Lattea. Ecco le mie seconde lacrime di emozione pura davanti alla bellezza dei cieli del Sud America.
Dopo il tramonto, abbiamo assistito alla rappresentazione di alcuni balli in abiti tradizionali. Il momento più intenso è stato quello del brindisi. Il capofamiglia, che per noi ha preparato un mate color rosa acceso, alza il bicchiere per brindare e, prima di bere, ne versa qualche goccia sul pavimento della sala.
Lo guardiamo interrogativi e increduli. Candido, come se si trattasse del gesto più ovvio e naturale, dice: “Se tu hai sete, anche Madre Terra ha sete”. Credo di essermi innamorata di questo paese in quel preciso istante.
Dopo questo momento di magia, abbiamo cenato ognuno con la propria famiglia ospitante. Alle otto il cielo era già completamente buio, l’illuminazione in cucina debole, e il silenzio tale da poter sentire il cucchiaio raschiare la scodella della nostra zuppa di verdure e cereali. Complice la stanchezza dell’intera giornata e la quiete della campagna, mi sono addormentata presto.
La sveglia è puntata alle 5.45, sono pronta per assistere alla magia del sole ad Est. L’alba sul lago titicaca è meravigliosamente limpida ma incredibilmente gelida.
La temperatura è sotto lo zero e il sole comincerà a scaldare l’aria solo tra un paio d’ore. Quando rientriamo a casa, la colazione non è ancora pronta e, così come siamo, giacche da sci incluse, ci infiliamo a letto e aspettiamo che Juliana venga a chiamarci per il caffè. Juliana ha 40 anni e aspetta il quarto figlio.
Taquile, Risveglio sul Lago Titicaca
Ci racconta che la primogenita frequenta l’università, parla 4 lingue e vive a Puno. I figli maschi invece hanno 18 e 13 anni e vanno a scuola. Ci confessa di accusare la stanchezza a causa della gravidanza e di soffrire il freddo di agosto.
Nonostante tutto, rifiuta il nostro aiuto e lava da sola, nell’acqua gelata del lavandino in cortile, i piatti sporchi di ieri sera.
Le chiediamo se è mai stata in Italia o in Europa, ma ovviamente non si è mai spinta oltre Puno. Questo specchio d’acqua è il suo orizzonte quotidiano e perpetuo. È dolce quando ci dice che ospitare turisti è un lavoro che le piace: non deve occuparsi più soltanto della terra, e conosce il mondo grazie ai racconti di chi passa di qui.
Per colazione ci ha preparato caffè (solubile), pane (fritto), marmellata di fragole, burro, uova sode, succo di quinoa (preparato con succo di mela, acqua calda e cannella e tanto amore).
Lago Titicaca
La giornata è dedicata alla visita dell’isola di Taquile, dove il tempo sembra essersi fermato. È abitata da circa 2200 persone, suddivise in circa 360 famiglie. La popolazione si autogestisce: vota i propri rappresentanti, che si occupano di organizzare il lavoro rurale e di regolare la vita della comunità, secondo le antiche leggi degli incas.
Per centinaia di anni, gli abitanti di Taquile non hanno potuto sposare persone che non fossero originarie dell’isola. Ancora oggi è invece ammessa, se autorizzata dalle famiglie di provenienza, una sorta di convivenza prematrimoniale per consentire alle coppie di conoscersi prima del matrimonio, che non ammette divorzio.
Qui non ci sono strade carrabili, soltanto sentieri, e l’elettricità è quasi del tutto assente.
Camminando (non senza fatica, si oltrepassano anche qui i 4000 mslm) verso il principale centro abitato, si può ammirare la Bolivia sulla sponda sinistra.
Dopo aver attraversato gli archi che segnano l’ingresso ai territori delle varie comunità, arriviamo in piazza, dove veniamo accolti da una grande festa con musica e balli di gruppo in abiti coloratissimi. In ogni angolo, collane di fiori colorati addobbano porte, finestre e i banchi di un grande mercato tessile. Per pranzo assaggiamo la trota del lago e, al rientro verso Puno, attraversiamo le isole galleggianti di Uros.
Dalle sponde del lago Titicaca ci spostiamo in direzione vinicunca: la montagna dei sette colori. Sarà la mia prima volta sopra i 5000 mslm. Neanche a dirlo, ci svegliamo presto. Per arrivare al “campo base” a 4600 mslm, dove cominceremo a salire a piedi, ci vogliono più di due ore di strada: è sterrata, doppio senso e totalmente priva di protezioni.
Sale vertiginosamente, tanto che siamo costretti a lasciare gli zaini (che viaggiano sul tetto del pulmino) presso il punto di ristoro dove torneremo per pranzo.
La strada attraversa la vallata e passa tra le case di un paese di contadini. Tutto è ancora autentico, ma il turismo è in crescita e c’è da chiedersi per quanto ancora lo resterà.
Per arrivare in vetta, bisogna percorrere 3 km a piedi: a questa altitudine, nonostante i primi due siano quasi in piano, il tempo di salita è stimato in circa un’ora e trenta. Ho il fiatone e spesso la tachicardia, per cui salgo lentamente, ma non accuso nè la nausea nè il mal di testa.
Con pazienza, e con grande emozione, tocco i 5036 mslm. Il panorama è bello da far male al cuore: ghiacciai immacolati oltre i 6000 metri, Ande a perdita d’occhio e questa montagna rossa e a righe colorate che sembrano disegnate. Il quadro è da non credere.
Restiamo in quota per qualche foto, poi cominciamo a scendere. Mi accorgo di avere le mani gonfissime e di un colore innaturale.. l’effetto della pressione si fa sentire, per cui mi affretto a tornare al pulmino. La giornata è stata tosta, ma ne vale davvero la pena.
Dagli oltre 5000 mslm della montagna colorata, si scende ai 3400 mslm di Cusco. Il viaggio verso la città è decisamente lungo, ma dopo una settimana da vagabondi ci aspetta un giorno nella civiltà (e ben due notti di fila nello stesso albergo, un vero lusso).
È la storica capitale dell’impero del sole: coloniale, credente, pulita, ordinata, ancora autentica. Tra le città del Perù, la mia preferita. Anche qui, il mercato è il centro della vita cittadina e le chiese sono numerosissime e barocche.
Ci perdiamo per le strade del quartiere di San Blas, abbarbicato sulla collina, un insieme di case piccole e bianche e di stradine dove si trovano ottimi ristoranti e negozi di tendenza.
Quale capitale dell’Impero Inca, è la porta di accesso alla valle sacra e a Machu Picchu, le nostre prossime mete.
Andiamo alla scoperta della Valle Sacra, la valle del fiume Urubumba, centro dell’impero inca. La prima tappa è il villaggio di Chinchero, i cui terrazzamenti per la coltivazione del mais sono perfettamente conservati.
La seconda tappa è Moray, a 3500 mslm: si tratta di terrazze circolari, che potrebbero sembrare anfiteatri ma in realtà costituiscono un vero e proprio centro di ricerca agricola. Profonde sino a 100 metri, consentivano la coltivazione di molte varietà di piante diverse, anche grazie al fatto che ad ogni “livello” la temperatura è differente.Il sito è stato scoperto soltanto nel 1931.
Il panorama, come sempre, è mozzafiato. Poi, ci dirigiamo alle poco distanti e imperdibili saline di Marās: 3000 vasche, infinite sfumature di bianco, beige, grigio e rosa. È un mistero come l’acqua salina possa trovarsi a 3800 mslm.
L’ultima tappa è Ollantaytambo, la fortezza sacra: una serie di terrazze di pietra lavorata (ancora oggi non si sa bene come), a protezione del villaggio e della valle. Il granaio, il tempio del sole, le abitazioni: tutto è ancora incredibilmente conservato, e i canali di irrigazione costruiti dagli inca ancora oggi servono il villaggio.
Tutta la bellezza splendente di Machu Pichu
I massi di granito sono perfettamente incastonati tra loro, grazie a tagli perfetti e agli angoli arrotondati. Non è stato usato alcun tipo di malta. Grazie a queste particolari tecniche di costruzione, gli edifici hanno resistito nei secoli ai terremoti.
Da qui parte il treno per Agua Caliente, dove dormiremo, capolinea e base per salire a Machu Picchu.
Il binario è affollatissimo, la confusione regna sovrana. C’è una specie di eccitazione che si placa soltanto una volta seduti in treno, quando cala il silenzio. A tenermi sveglia, nonostante la stanchezza, è l’emozione.
Ho amato ogni singolo giorno di questo viaggio, e arrivo ai piedi di Machu Picchu con un bagaglio di esperienze e ricordi meravigliosi. Fino ad ora, però, ho finto a me stessa di non sapere che l’ultima tappa prima del rientro a Lima era quella più attesa. Temevo e non volevo che sminuisse tutto il resto.
Ma stasera, finalmente, sono qui e sento scorrere sotto di me le rotaie che costeggiano il fiume ulubamba. Il viaggio dura due ore. Il buio fuori è assoluto, e fa crescere in me la voglia di arrivare a domani e aprire gli occhi sulla meraviglia.
Salto la cena, resto in camera da sola. Dopo una doccia finalmente bollente, mi metto a letto e punto la sveglia alle 5.30. Aspetto che arrivi domani.
Abbiamo deciso di salire a piedi da Aguas Calientes (2000 mslm) sino all’ingresso per Machu Picchu (2430 mslm), evitando la coda (circa un’ora) per salire sulla navetta che in 20 minuti senza fatica ci lascerebbe a destinazione. Le gambe sono allenate e a piedi ha tutto un altro sapore.
Le temperature non sono rigide come altrove, ma la mattina presto restano intorno ai 5 gradi e l’aria punge. Il cielo anche oggi è una tavola azzurra senza macchia e più tardi col sole farà caldo.
Mi vesto a strati (e non a caso): maglia di cotone, termica, la mia amata camicia, felpa, giacca, cappello. Davanti a me 400 m di dislivello, a gradoni. Il sentiero inca è davvero faticoso e mentre ho il fiatone soltanto a salire, mi domando quale profusione di energie sia stata necessaria a costruirlo. Intanto, ecco l’alba.
Non ho parole abbastanza per descrivere l’emozione di trovarsi su questo sentiero, immersa nel silenzio, mentre si apre la vista sulla vallata proprio quando il sole buca le cime delle Ande e illumina Machu Picchu.
Senza dubbio, sul podio delle albe più intense della mia vita. Una volta arrivati, è stato come innamorarsi.
Me lo sono trovata davanti. E mi sono vista “dalla luna”: un piccolo puntino sulla Terra, in Sud America, in Perù, tra le Ande.. e infine a Machu Picchu.
Io, qui. In questa mattina di luce perfetta. Non so spiegare l’energia che ho sentito, ma ho provato un’emozione fortissima. Decidiamo di salire sulla Montana Machu Picchu: altri 600 m di dislivello, 2670 scalini per arrivare a 3085 mslm. Non ho mai faticato così tanto.
Sono felice di non aver ceduto alla tentazione di abbandonare l’impresa. Sulla sommità, infatti, il panorama è mozzafiato e Machu Picchu un puntino minuscolo perso nella Cordigliera. Non ho mai visto spettacolo più bello.
Anche la discesa, dopo una breve sosta, è decisamente tosta e ad ogni passo sento tremare le ginocchia per lo sforzo. Ma ne vale la pena. Lascio Machu Picchu con un nodo in gola: ha stregato il mio cuore (oddio, si è preso pure i miei poveri polmoni ) e, rientrando a Cusco, il mio unico pensiero è “tornerò”.
Alla luce del sole che va giù, attraversiamo in treno la vallata. Tutto mi stupisce: i binari dentro il letto del fiume, le persone lungo i binari, la vegetazione rigogliosa. Ho un peso nel cuore, ma sa di felicità.
Il rientro nella capitale è denso di nostalgia. Gli ultimi due giorni sono dedicati allo shopping, alla visita del centro storico della città e allo svago. Lima (col suo microclima padano e sul terzo gradino del podio delle città più trafficate al mondo) non può competere con le meraviglie naturali di questo Paese, ma offre qualche spunto.
La domenica il centro è chiuso al traffico, ed è curioso osservare le abitudini dei peruviani.
Le chiese strapiene, il ritrovo di intere famiglie nelle grandi piazze per giochi di società e qualche spuntino consumato lungo i marciapiedi, la musica per le strade, i clacson incessanti. Il Perù offre tutto: cultura, storia, natura incontaminata, metropoli, ottima cucina. Non manca nulla.
L’atmosfera sudamericana, il disordine, l’amore e la cura per il cibo, i colori sgargianti dei tessuti, il legame con madre terra, il rispetto per la natura, i sorrisi senza barriere, l’orizzonte spesso infinito. Ho amato tutto.
E come ogni amore vero, è stato e sarà indimenticabile.