Pulenta e misultin

18 marzo 2020 - 18:03

Il piatto simbolo del Lario ha il sapore della terra e dell’acqua e racconta la cultura e le tradizioni della gente che da sempre vive con un piede a lago e l’altro in montagna, nei paesini arroccati sulle rive scoscese percorse dal Sentiero del Viandante, uno dei più affascinanti itinerari escursionistici della Lombardia.

C’è una geografia delle amministrazioni e una dello spirito. La prima è vera sui libri e sulle mappe, la seconda quando cammini per strada, quando parli, quando muovi la mano in un gesto di stizza o di saluto e pure quando ti metti con le gambe sotto un tavolo e pensi a quello che ti piacerebbe mangiare.

Entrambe hanno i loro aggettivi. Così, se per la prima gli abitanti dei paesini che si affacciano sulle sponde del Lario sono comaschi o lecchesi, in base l’ottuso discrimine stabilito da una linea immaginaria, alla seconda basta un solo termine per tratteggiarne il profilo: lagheé. Lagheé sono tutti quelli nati con i piedi a mollo nelle acque profonde e che a portarli lontano dalle loro darsene e pontili rinsecchirebbero come alberi a cui hanno tagliato le radici.

Ma come gli alberi cercano l’acqua e nello stesso tempo si aggrappano alla terra per tenersi saldi, così la gente del lago da sempre se ne sta abbarbicata ai costoni ripidi che salgono su per mille e più metri, verso le cime scabrose: sopra il lago le case, addossate le une alle altre, e sopra ancora gli orti, i ronchi, i boschi e i pascoli. Li si potrebbe chiamare marinai per la loro sapienza in fatto di nodi, remi e venti, ma il passo è quello dei montanari e trattano caprioli e galli forcelli con la stessa confidenza che danno alle alborelle e ai pesci persici.

Di terra e di acqua…

Ecco, lo spirito lagheé è un impasto di acqua e terra, di lago e montagna. Lo si vede nel paesaggio, lo si percepisce nelle abitudini della gente e lo si assapora nei cibi più caratteristici di questa zona come la polenta con i missoltini, o meglio “pulenta e misultin” per dirla con il dialetto locale, duro e ferrigno come le rocce delle Grigne, ma che, almeno quando parla di delizie alimentari, sa essere più musicale dell’italiano!

Sulle rive del Lario il frutto dei campi, quel mais che ha nutrito intere generazioni di “paisan” dell’Italia settentrionale, trasformato in polenta affettata e abbrustolita va a far da contrappunto al sapore acquatico dei misultin, gli agoni sotto sale. Non è un piatto per mammolette: per godertelo devi avere il gusto dei sapori decisi e ci vuole anche del coraggio per guardare nell’occhio quella mummia di pesce e lasciarti raccontare la sua cruda storia, che comincia ben prima dei fornelli della cucina.

Sì, perché prima di esser tale il misultin è stato agone, nella notte dei tempi pesce migrante fra mare e lago, poi divenuto abitante stanziale delle profondità più nere del Lario, dove nessuna fiocina, rete o amo potrà mai arrivare. C’è però un periodo breve, nella prima metà di giugno, in cui tutta l’etnia risale verso la superficie per andare a depositare le uova sui bassi fondali sassosi delle rive. Lì per secoli li hanno attesi i lagheé, appollaiati in cima ai “cavalit”, gli esili pontili di lego che ancora oggi si vedono fluttuare sopra le acque del lago e che, fino a pochi decenni fa, nella stagione propizia, occupavano ogni metro della costa. Ogni cavalit il suo pescatore, ogni pescatore uno strumento indispensabile per l’economia familiare: guai a chi avesse osato usurpare una postazione!

Una volta pescati gli agoni passavano nelle mani dei “pesat”, sapienti sacerdoti del culto lariano della mummificazione ittica. Puliti dalle interiora, salati secondo quantità e modalità note solo agli iniziati, venivano deposti in un contenitore e rigirati ogni dodici ore, infine allineati su uno spago e messi ad essiccare al primo sole estivo, in lunghi festoni d’argento che adornavano le case dei paesi rivieraschi.

Ci voleva, e ci vuole ancora oggi, mano esperta e orecchio fino per tastare consistenza e scricchiolii e capire quando è il momento di togliere gli agoni dall’essiccatura e passarli nella misolta di legno o di latta, disposti come petali di un fiore, pressati per giorni, ripuliti dall’olio in eccesso e infine trasformati in misultin, un tempo preziosa riserva di cibo a lunga conservazione e oggi delizia degli amanti della buona tavola.

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