Golfo di Guinea, nelle terre del Vudù

18 marzo 2020 - 2:22

Dall’alto della montagna sacra s’innalza un fumo denso che odora di sofferenza, di morte.

È la carne degli animali sacrificati che brucia tra le fiamme e che, dopoaver donato la propria vita agli spiriti, ora diventerà un prelibato pranzetto per i sacerdoti sacrificali. Siamo nel Golfo di Guinea, la terra del Vudù, dove la gente, per ingraziarsi gli spiriti e ottenere i loro favori, alleva con cura gli animali che, diventati adulti, saranno destinati al sacrificio.

Nel nord del Ghana, una faticosa salita di 4 km, porta all’altopiano di Tongo dove vivono le tribù dei Talensi. Si cammina in mezzo a particolari formazioni rocciose fra le quali il vento si diverte a correre, producendo un sibilo che, a tratti, disorienta.

Lassù si balla al ritmo dei tamburi, mentre nella Grotta dell’Oracolo, i sacerdoti si preparano ai sacrifici. Sostiamo alla porta d’ingresso del villaggio, dove il capo tribù è seduto con i suoi consiglieri e i suoi cani. Dopo un lungo colloquio chiediamo il permesso di entrare, cosa che ci viene concessa con piacere e che verrà contraccambiata con piccoli doni per i bambini.

Ogun, il dio del ferro

Il vudù è una delle religioni più antiche dell’Africa Occidentale ed ebbe origine nelle foreste pluviali e nella savana nel sud del Ghana, Togo e Benin.

È proprio a partire da qui, dal Golfo di Guinea, che questo antico culto ha attraversato l’oceano sulle navi negriere, per approdare sulle coste Haitiane e poi a Cuba.

Per stabilire un buon rapporto con gli spiriti vudù sono essenziali le offerte come feticci e cibo. Alcuni, invece, esigono il sangue di vittime sacrificali che contiene un soffio potente di energia vitale che nutre il vudù e le sue anime erranti.

Il sacrificio animale e per molti secoli quello umano, sono stati un elemento fondamentale delle millenarie pratiche vudù. Alla fine delle danze propiziatorie, i Talensi offriranno polli e capre il cui sangue verrà sparso sui feticci. Mentre l’animale lascia piano piano la sua vita, si conficca un bastone nella terra per chiedere di soddisfare i bisogni di tutti i giorni: un buon raccolto, un buon matrimonio, una promozione scolastica…

Scendiamo dalla collina sacrificale e proseguiamo lungo una pista che porta alla strada principale dove le auto sfrecciano a una velocità sorprendente. Noi abbiamo donato ad Ogun, il Dio del ferro, un intero casco di banane, chiedendo protezione. Qui, quando un’auto si rompe, il proprietario si rivolge ad Ogun, dal meccanico ci si và solo in un secondo tempo, quando Ogun ha rifiutato la sua assistenza. Ma, a quel punto, potrebbe essere troppo tardi e questo lo testimoniano le auto accartocciate lasciate ai bordi delle strade per ricordare agli autisti di rallentare la velocità.

 

I figli del fuoco

Ogun ci accompagna per mano fino alla frontiera con il Togo, sperduta nella boscaglia dove militari sonnolenti e ciondolanti non hanno nessuna voglia di lasciare passare due poveri viaggiatori grondanti di sudore. Dopo controlli estenuanti ai documenti e al veicolo, al calar del sole e dietro un certo compenso, le sbarre si alzano e la nostra jeep corre veloce verso il Togo, alzando un fitto polverone rosso che offusca sempre più il Ghana e la sua discutibile frontiera.

Un bagliore lontano attira la nostra attenzione. Un enorme fuoco illumina la vasta pianura ai piedi delle colline abitate dai Tem. Al ritmo incalzante dei tamburi, i danzatori cadono in trance, si lanciano sulle braci, se le strofinano sul corpo, le mettono in bocca masticandole, senza riportare alcuna bruciatura o dolore.

Queste tribù di guerrieri, per ragioni di territorio, in passato, erano in conflitto con popolazioni limitrofe. Alla fine delle battaglie, tornati vincitori, davano sfogo alla loro gioia ubriacandosi permettendo così al nemico di entrare nei loro villaggi e bruciare le capanne. In seguito i guerrieri Tem hanno imparato, dopo varie pratiche, a sopportare il fuoco in modo di avere il tempo di prendere le loro cose e fuggire.

Rimaniamo sbalorditi davanti a queste pratiche ed è difficile spiegare a parole quello che stiamo vedendo con i nostri occhi. Coraggio? Autosuggestione? Magia? Restiamo talmente colpiti e incantati che ci viene da pensare che siano proprio i feticci a creare una barriera di protezione tra questi guerrieri e il fuoco.

 

Castelli di argilla

Salutiamo i Tem che hanno lasciato dentro di noi una grande confusione ed emozione e proseguiamo, entrando in una zona molto fertile dove il prezioso fiume che l’attraversa, concede acqua a volontà per l’irrigazione dei campi.

Ci si trova in un mosaico di praterie, foreste tropicali e campi coltivati, dominati dal monte Kabyè di 820 metri, la cima più elevata della zona ai cui piedi si trovano i pittoreschi villaggi di fango dei Kabyè, fabbri ferrai, una figura che, in Africa Occidentale, è circondata da un’aura mistica. Questi artigiani sono temuti per la loro confidenza col fuoco e il ferro e si ritiene siano immuni agli spiriti malvagi che dovrebbero conferire loro poteri speciali.

Salendo verso nord il paesaggio lascia i colori della foresta per indossare quelli della savana dalla quale spunta il massiccio dell’Atakara abitato dalle isolate tribù dei Tamberma. Questi abili costruttori hanno utilizzato argilla, legno e paglia per costruire le loro dimore fortificate, veri e propri castelli che hanno colpito architetti di fama internazionale.

I Tamberma, nonostante l’isolamento, hanno mantenuto fedeltà assoluta alle proprie tradizioni animiste. Davanti all’entrata di ogni casa c’è la presenza di grossi feticci a forma fallica, che rappresentano lo spirito degli animali che si devono sacrificare.

Gli ingressi di questi castelli, chiamati Tata, sono molto stretti e concepiti per essere varcati di spalle in modo di avere sempre lo sguardo rivolto verso il nemico.

I Tamberma, come tutte le tribù dell’Africa Occidentale, marcano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta con una cerimonia d’iniziazione. Si deve dimostrare di essere pronti a diventare uomini passando attraverso prove infernali come la circoncisione, duelli, colpi di frusta e scarnificazioni sul ventre. Un iniziato che non ha gridato di dolore arriverà a raggiungere lo stato di guerriero. Chi invece emetterà anche il minimo gemito, sarà considerato un debole e porterà con sé questo marchio per tutta la vita.

 

Gli spiriti delle acque

Scesi dalle montagne e lasciati i Tamberma ai loro antichi riti, si percorre la savana sotto un cielo reso lattiginoso dall’Harmattan, il vento che soffia dal deserto, che screpola la pelle e che s’insinua ovunque. Ancora pochi chilometri e, dopo la solita prassi alla frontiera, si entra in Benin.

Un lungo tragitto con una barca a motore, attraverso una fitta rete di vie d’acqua, immerse fra canneti e fiori di loto, ci porta nella grande laguna di Nokuè dove si trova il villaggio lacustre di Ganviè abitato dai Tofinù,. Queste tribù si rifugiarono qui nel XVII secolo per sfuggire ai cacciatori di schiavi di Dahomey che, a causa di un tabù religioso, non potevano avvicinarsi all’acqua.

Fu così che i Tofinù si salvarono dalle razzie negriere e da allora non hanno mai lasciato le loro capanne costruite su palafitte con i tetti ricoperti di paglia. Le piroghe, condotte con l’aiuto di lunghe pertiche, rappresentano l’unico mezzo di comunicazione di questo centro abitato senza strade, senza auto, senza servizi di alcun tipo e si trasformano in piccoli negozi dove viene barattato il pesce appena pescato.

Il Drago è morto: evviva il Drago!

Spostandosi verso i confini con la Nigeria, veniamo a conoscenza di un’usanza locale. Molti uomini alle prime luci salgono sulle loro moto e passano il confine con la Nigeria. Affrontano rischi, pericoli e pagando il silenzio dei doganieri, cercano di riempire più taniche possibili di petrolio per poi rivenderlo nei banchetti improvvisati lungo la strada. La gente si ferma volentieri lì per risparmiare e anche se questa è un’attività del tutto illegale, la polizia chiude un occhio.

In questa zona incontriamo i Fon e gli Yoruba che, proprio oggi, sono in festa. Si danza indossando le maschere Geledè, per propiziare la fertilità dei campi e delle genti e anche per tenere lontano gli animali feroci, un pericolo presente ancora oggi per uomini e bestiame.

Le maschere saltano al ritmo dei tamburi e dei sonagli raccontando storie a carattere morale e umoristico. Alla fine il grande Drago corre fra i bambini portando scompiglio e timore. Il drago cade, si rialza, ricade e finge di essere morto, poi si rialza, mentre i bimbi gridano a gran voce: “È morto! È vivo! È morto! È vivo!”.

 

I guardiani della notte

Lasciamo questo villaggio e la sua contagiosa allegria e scendiamo sulla costa dove, a Ouidà, si festeggiano gli spiriti dei morti. Nella grande piazza gli spiriti prendono la forma di Zangbetò, i severi guardiani della notte, simili a grandi pagliai, il cui continuo roteare simboleggia l’operazione di pulizia spirituale e l’esecuzione di miracoli.

All’inizio viene da sorridere pensare che questi pagliai abbiano il potere di roteare da soli. Ma dopo un po’ che ci si trova in mezzo a questo enorme flusso di energia, si viene travolti restando quasi storditi e, alla fine, ci si crede veramente.

 

I guardiani della notte sono i sorveglianti dei villaggi e, finite le danze, corrono per le vie fermandosi davanti alle capanne di chi ha commesso reati. Per un adulterio o per un furto si devono pagare delle multe, ma per un omicidio, si viene eliminati sul posto…

La gente si rivolge a loro per chiedere aiuto contro l’ignoto che li circonda. L’enorme palla del sole si solleva lentamente dall’oceano tingendo la sabbia, trasformandola in soffice velluto dorato, mentre le foglie sfrangiate delle palme pendono mollemente nell’aria senza vento, nell’assoluta pace e tranquillità.

 

La Porta del non ritorno

A Ouidà si tiene, una volta all’anno, la Festa Internazionale del Vudù, un’occasione per incontrare a tu per tu il re del vudù di tutta l’Africa, adepti, feticheur e sacerdotesse che, avvolti nel loro pagne bianco, arrivano da ogni parte del mondo: dal Brasile, dalle Isole Caraibiche, da Haiti.

Tutti corrono verso la “Porta del non ritorno” che, per più di 400 anni, ha visto passare migliaia di esseri umani diretti alle navi negriere. Qui iniziavano un viaggio verso un futuro che avrebbe cambiato per sempre le loro vite. Oggi quella stessa sabbia è calpestata dai discendenti di quelle persone che sono qui per assistere alla grande festa che servirà a purificare i villaggi dalle ostilità.

Sono i giorni in cui la povera Africa non piange più, si veste di oro e lustrini dando sfogo a tutta la sua energia e, con canti e balli, dimostra di essere viva, oggi più che mai. Alla fine il Presidente del Benin, Yayiboni, si presenta con tutta la sua corte e saluta il popolo davanti alle telecamere nazionali e internazionali.

Incontro col Dio Pitone

Il sole cala e i danzatori chiamano a gran voce gli spiriti. Alcune bimbe di 5 anni sono pronte a segnarsi il volto con le scarnificazioni, le dolorosissime e incancellabili incisioni fatte in onore del Dio Pitone, simbolo di vitalità. Ci sono templi, come qui a Ouidà, dove si venerano i pitoni e, fra soffi, sibili, strusciate di umide squame e urla di terrore, ci si scarnifica il volto per assumere le stesse sembianze, praticando incisioni con la lama di un rasoio.

Pianti e grida si mescolano al martellante ritmo dei tamburi mentre i danzatori si fanno tagli sulle braccia e sul torace, cospargendosi il viso di un impasto fatto di farina di mais e olio di palma che trasforma la loro espressione inquietante in un’espressione spettrale, con occhi sgranati che si perdono nel vuoto. Poi cadono in un profondo stato di trance.

L’immenso potere della divinità fa vacillare gli uomini che crollano a terra esausti e si percepisce la forza enorme che entra nei loro corpi, scatenandosi nelle loro vene. Ora il posseduto è diventato Dio stesso.