Per consentirci di riposare dalla stanchezza del volo intercontinentale e in vista del viaggio in pullman sino a Moron (990 km che percorreremo in circa 15 ore) la guida ci porta a fare colazione da una sua amica, che sta risistemando un appartamento nel centro della capitale per trasformarlo in ostello entro la primavera.
Al momento la casa è quasi fatiscente, ma molto spaziosa. Sarà il primo e ultimo appartamento e anche l’ultima toilette (quasi) degna di questo nome che vedrò. Noto subito doppie finestre con doppi vetri e con meno 37 gradi fuori non faccio fatica a capire il perché. La signora che ci offre la colazione si chiama Gandulam, parla inglese e come credo il 95% dei mongoli è logorroica.
Ci chiede da dove veniamo e vuole vedere Genova su Google Maps. Racconta di aver visitato Firenze e Pisa nel 2007 e di voler tornare in Italia, dove da come le brillano gli occhi ha evidentemente lasciato il cuore. Ci prepara uova strapazzate, un sandwich con formaggio (che si dimentica nel tostapane e che per cortesia mangiamo lo stesso anche se bruciacchiato) e caffè.
Mentre gusto la mia prima colazione mongola, in una cucina sottosopra color verde menta, usa la cartina della Lonely Planet che mi ha chiesto in prestito per darci una lezione di geografia sulla Mongolia.
Più tardi, usciamo a fare la spesa per la settimana. Il pullman parte alle 15 ma alle 13 siamo già pronti alla stazione degli autobus per caricare bagagli e scatoloni con provviste, coperte e tutto l’occorrente per il viaggio. La confusione regna sovrana, il freddo è pungente ed è soltanto l’inizio.
Definire il trasferimento a Moron “viaggio della speranza” è un eufemismo: dal finestrino che ghiaccia arriva un’aria gelida che mi costringe ad usare il piumino come isolante. Lungo la strada, siamo costretti a fermarci più volte perché un bambino e una ragazzina che viaggia sola stanno male. Dopo quattro ore di strada accumuliamo un ritardo di un’ora e mezza circa e una ambulanza ci raggiunge per ricoverare la povera ragazza. Salto la cena. L’autista, sempre lo stesso per l’intero tragitto, non spegne la musica nemmeno durante la notte.
Probabilmente è il viaggio più assurdo che io abbia mai fatto. Prendere il pullman è stata una mia scelta e nonostante la stanchezza lo rifarei. Conoscere un paese e provare a comprenderne la mentalità e i sentimenti che lo animano credo sia possibile soltanto calandosi nella realtà e vivendolo il più possibile come lo vive chi lo abita.
Una volta arrivati a destinazione, alle 6.40 del giorno successivo, mi sdraio stremata sul letto della mia prima gher e mi scaldo con un tè. Sono incredula ma felice.