Mongolia: un mondo oltre il nostro mondo
Un altro mondo
È difficile trovare le parole per descrivere un viaggio che unisce la scopertadi una natura di bellezza straordinaria, la più ostile e incontaminata mai incontrata, ad un’esperienza personale che può considerarsi estrema, sia per lo stile di vita, ben lontano dal nostro, sia per le temperature rigide che hanno amplificato le difficoltà legate ai gesti più semplici di una vita quotidiana priva di agi, ribaltando ogni (pre)concetto di banalità e comodità.
Più di tutto, potrei dire che la Mongolia è bellezza senza filtri. Non soltanto dei paesaggi sconfinati, col blu limpido e acceso del suo cielo sacro, il bianco scintillante del ghiaccio e della neve e il giallo ocra dell’erba che la taglia.
È la sensazione netta di incontrare qualcosa di ancora autentico, che non si nasconde né si traveste. Un Paese che non prova e non vuole essere diverso da quello che è. Sbatti contro il muro del freddo vero, svolti appena fuori dal centro abitato e ti trovi davanti a un orizzonte senza limite, privo di qualsiasi punto di riferimento, indicazione o traccia umana, incontri persone con le quali la comunicazione verbale è impossibile.
Eppure. Eppure entrare in connessione con i mongoli è stato semplice, la popolazione è straordinaria: si presentano raccogliendo la tua mano tra le loro. Più che una stretta, una carezza. Parlano guardandoti sempre dritto negli occhi, sapendo di non poter essere compresi e forse proprio per questo, con l’intento di creare un legame.
Dicono sempre quello che pensano, senza vergogna ma con pudore e educazione (sarà per questo che mi piacciono tanto). Così la lingua inglese, tradurre, diventa superfluo. Qui vince su tutto quello che altrove stiamo perdendo: il senso di umanità. Provo a raccontarvelo.
Giorno 1 – da Genova a Ulan Bator
Il primo giorno trascorre in volo: Genova – Roma, Roma – Mosca (dove assaggiamo il freddo, ma è soltanto l’inizio) e infine Mosca – Ulan Bator.
Quando arriviamo nella capitale mongola è mattina presto e il termometro segna meno 37 gradi centigradi. Uscire dall’aeroporto è uno shock: tutto è avvolto da una specie di nebbiolina che non ho mai visto prima – è aria ghiacciata, e l’odore di carbone bruciato è quasi insopportabile.
Ulan Bator in inverno guadagna il triste primato di città più inquinata del mondo, a causa delle emissioni dovute a tutto quello che viene bruciato per combattere il gelo.
L’inquinamento è un problema serio e si accompagna a quello del sovraffollamento (nella capita lei abita la metà della popolazione dell’intera Nazione) e al cambiamento climatico, che causa estati sempre più torride (si arriva sino a 40°) e inverni sempre più duri.
Giorno 2 Da Ulan Bator a Moron
Per consentirci di riposare dalla stanchezza del volo intercontinentale e in vista del viaggio in pullman sino a Moron (990 km che percorreremo in circa 15 ore) la guida ci porta a fare colazione da una sua amica, che sta risistemando un appartamento nel centro della capitale per trasformarlo in ostello entro la primavera.
Al momento la casa è quasi fatiscente, ma molto spaziosa. Sarà il primo e ultimo appartamento e anche l’ultima toilette (quasi) degna di questo nome che vedrò. Noto subito doppie finestre con doppi vetri e con meno 37 gradi fuori non faccio fatica a capire il perché. La signora che ci offre la colazione si chiama Gandulam, parla inglese e come credo il 95% dei mongoli è logorroica.
Ci chiede da dove veniamo e vuole vedere Genova su Google Maps. Racconta di aver visitato Firenze e Pisa nel 2007 e di voler tornare in Italia, dove da come le brillano gli occhi ha evidentemente lasciato il cuore. Ci prepara uova strapazzate, un sandwich con formaggio (che si dimentica nel tostapane e che per cortesia mangiamo lo stesso anche se bruciacchiato) e caffè.
Mentre gusto la mia prima colazione mongola, in una cucina sottosopra color verde menta, usa la cartina della Lonely Planet che mi ha chiesto in prestito per darci una lezione di geografia sulla Mongolia.
Più tardi, usciamo a fare la spesa per la settimana. Il pullman parte alle 15 ma alle 13 siamo già pronti alla stazione degli autobus per caricare bagagli e scatoloni con provviste, coperte e tutto l’occorrente per il viaggio. La confusione regna sovrana, il freddo è pungente ed è soltanto l’inizio.
Definire il trasferimento a Moron “viaggio della speranza” è un eufemismo: dal finestrino che ghiaccia arriva un’aria gelida che mi costringe ad usare il piumino come isolante. Lungo la strada, siamo costretti a fermarci più volte perché un bambino e una ragazzina che viaggia sola stanno male. Dopo quattro ore di strada accumuliamo un ritardo di un’ora e mezza circa e una ambulanza ci raggiunge per ricoverare la povera ragazza. Salto la cena. L’autista, sempre lo stesso per l’intero tragitto, non spegne la musica nemmeno durante la notte.
Probabilmente è il viaggio più assurdo che io abbia mai fatto. Prendere il pullman è stata una mia scelta e nonostante la stanchezza lo rifarei. Conoscere un paese e provare a comprenderne la mentalità e i sentimenti che lo animano credo sia possibile soltanto calandosi nella realtà e vivendolo il più possibile come lo vive chi lo abita.
Una volta arrivati a destinazione, alle 6.40 del giorno successivo, mi sdraio stremata sul letto della mia prima gher e mi scaldo con un tè. Sono incredula ma felice.
Giorno 3 – Da Moron a Ulan Ula Somon
Mentre facciamo colazione e cerchiamo di recuperare un po’ di forze, la guida prepara uno stufato di carne e verdure che sarà il nostro pranzo. Verso le 10 ecco arrivare l’autista, Byanbaa, con il nostro mezzo. La mia ignoranza in materia di motori è dilagante, per cui a prima vista guardandolo penso 1) “che meraviglia!” 2) “dove pensiamo di andare con questo trabiccolo??”.
In realtà è un UAZ452, un fuoristrada utilizzato dall’esercito sovietico perché robusto, versatile e a quanto pare mediamente economico. Insomma, il trabiccolo in questione ci ha poi portati ovunque: con quei ruotini che mi preoccupavano tanto viaggia su ghiaccio, neve, terreni sconnessi in mezzo a boschi di larici.. praticamente è un carro armato.
Appena usciti dalla città di Moron ecco la Mongolia che ho sognato da casa studiando l’itinerario: il paesaggio si apre subito in lande sconfinate, dove incontriamo le prime mandrie di montoni e cavalli.
Questi animali potrebbero sembrare abbandonati al loro destino ma c’è sempre un allevatore, da qualche parte, che li controlla e che improvvisamente (ed è capitato spesso) spunta all’orizzonte avvolto nel suo deel (l’abito tradizionale imbottito e lungo sino ai piedi) in sella ad una moto oppure a cavallo.
Dopo aver pranzato sul pulmino, ripartiamo verso il centro abitato dove trascorreremo la notte di capodanno. Percorriamo altre tre ore di strada, facendo soltanto una breve sosta in una gher per due chiacchiere e un thè caldo, e poi proprio quando scolliniamo vediamo scendere il sole dell’ultimo tramonto del 2019.
Si gela e per scendere dal fuoristrada ci vuole una discreta dose di coraggio, ma non posso resistere: il cielo è una tavola che a poco a poco si illumina di stelle ed arriviamo all’oliin pass, dove incontriamo 13 ovoo.
Questi cumuli di sassi a forma di cono sono luoghi di culto sciamanico e si trovano un po’ ovunque sparsi per la Mongolia. La guida ci spiega che chiunque passi di qui fa sosta per lasciare la propria offerta: vodka, cibo, denaro oppure le khadag, tradizionali sciarpe cerimoniali, che si donano anche agli sciamani, solitamente azzurre. Il blu/azzurro è infatti il colore della Mongolia: è il simbolo del suo cielo sacro e del Dio Tengri.
L’usanza vuole che si cammini per tre volte in senso orario intorno all’ovoo per esprimere un desiderio. È un modo decisamente originale e poetico per chiudere l’anno.
La sera di capodanno alle 21 – subito dopo una cena decisamente basica e molto lontana dal concetto di “cenone” – crollo in un sonno profondissimo, stremata da tre giorni senza vedere un letto. Mi sveglio soltanto per il brindisi e per mangiare un pezzo di torta che, complici le temperature bassissime, viaggia con noi da due giorni sul fuoristrada, conservandosi perfettamente.
Prendete nota: la Mongolia è quel paese in cui il frigorifero durante l’inverno serve per tenere il cibo AL CALDO. Nonostante il letto non fosse dei più comodi (in pratica, una tavola di compensato) ho finalmente riposato e sono riuscita con coraggio a spogliarmi per cambiare l’intimo termico.
Giorno 4 – Da Ulan Ula Somon alla Regione dei Monti Sayanj (la catena montuosa che divide la Mongolia dalla Siberia) dove vivono gli Tsataaan, la tribù degli uomini renna.
Dopo colazione, apprendo che andremo in visita allo sciamano. Ho insistito molto per incontrarne uno, dopo aver letto quanto lo sciamanesimo sia praticato e, per cultura e tradizione, costituisca parte integrante della vita dei mongoli. Sono contenta che la guida sia riuscita ad organizzarlo proprio oggi, è sicuramente un modo originale per cominciare il 2020.
Questo signore – che a guardarlo sembra più un generale sovietico che un guru spirituale – mi chiede soltanto nome di battesimo e anno di nascita. Non voglio fargli domande, sono qui per ascoltare. Stende un fazzoletto su cui posa le 41 pietre sacre (kuvaanak) poi strofina quello che chiama specchio (e che in realtà è un disco di rame), che dovrebbe riflettere i miei bisogni interiori e consentirgli di “vedere il mio futuro”.
Lo osservo con attenzione e, affascinata dalla ritualità dei gesti, cerco di non commettere errori e di cogliere la magia di quello che sto vivendo. Ovviamente, anche se del tutto inconsapevolmente, sbaglio: lo sciamano mi invita (la guida traduce simultaneamente) a non tenere gambe e mani incrociate, e io obbedisco.
Esiste un codice comportamentale molto rigido in Mongolia, che ignoro quasi totalmente ma so riguardare anche il linguaggio del corpo, perché i mongoli sono particolarmente superstiziosi e attribuiscono grande valore anche ai piccoli gesti.
Essere al suo cospetto è una esperienza straordinaria e anche se non sono propensa a credere a quello che mi dirà, so di non essere davanti a un ciarlatano che pretende di leggermi il futuro, ma di fronte ad una autorità importante per la comunità e che fa del dono ricevuto una missione.
Lo sciamano è psicologo, indovino, medico, sacerdote e divinatore: consiglia, cura, celebra i riti religiosi e consente agli uomini di connettersi con gli spiriti della natura.
Quando termina la mia “seduta” (per la quale ho fatto un’”offerta” di 7 dollari) indago un po’. Mi racconta che la nonna, sciamana, ha riconosciuto in lui lo stesso dono e glielo ha tramandato. Racconta di quanto sia stato difficile per lui accettare questo ruolo e spiega che fino a quando non ha maturato questa consapevolezza la vita è stata un percorso ad ostacoli e molto dura per lui.
E questa in fondo è una verità universale, perché le cose non vanno mai per il verso giusto fino a quando non impariamo ad accettare il nostro destino. O almeno questo è quello che ho pensato ascoltandolo. Dopo averlo ringraziato per il tempo dedicato ed i racconti, ci allontaniamo dalla cittadina e attraversiamo una vallata immensa e immacolata.
Gli alberi innevati sembrano sculture meravigliose e mangiare un piatto di pasta sul volante del fuoristrada mi rende entusiasta. Strada da fare ce n’è: costeggiamo la catena montuosa degli Altai e quando è quasi l’ora del tramonto una mandria di cavalli selvaggi ci taglia la strada. Sono minuti di poesia.
Quando ormai è sera, attraversiamo il Dood Tsagaan Lake, ovviamente completamente ghiacciato. C’è una luce azzurra che non ricordo di aver mai visto prima e che con il silenzio avvolge ogni cosa.
Facciamo sosta al controllo visti (per accedere a questa regione è infatti necessario un visto ulteriore rispetto a quello per entrare in Mongolia). Oltre, è consentito proseguire su ruota soltanto in inverno. In estate ci si addentra a cavallo, o niente. Anche se guardando il paesaggio non si direbbe, siamo quasi a 2000 mslm e quando ormai è notte attraversiamo il bosco di larici per arrivare all’insediamento degli uomini renna, dove per due giorni saremo sperduti nella tundra, senza connessione alcuna.
Giorno 5 – Per due notti dormiremo qui, nell’insediamento degli Tsataan.
Sulla guida ho letto che questo è uno dei sei luoghi più inospitali del pianeta. Il perchè non è difficile da immaginare. Inverni rigidi, venti che soffiano incredibilmente forti dalla Siberia, poca elettricità, niente acqua corrente, branchi di lupi e orsi come vicini di casa .. direi che basta.
Eppure subisco il fascino di questo posto e della sua gente, che mi ha stregata.
Un popolo che resta gentile nonostante la fatica quotidiana, con un grande senso dell’ospitalità e dai tratti somatici peculiari e bellissimi. Forse perché si trovano proprio al centro del continente asiatico, il loro viso è un autentico meltingpot.
Il colorito è più scuro del nostro ma non ancora “giallo”, il taglio degli occhi è orientale ma le labbra sono spesso carnose, hanno visi di diamante con zigomi accentuati e pelle spessa come gli inuit e tutte le popolazioni temprate dal gelo.
La loro è una storia di ostinazione e sopravvivenza, il nome la riassume: Tsaa significa “renna” e Tan “appartenenza”. Sono stati battezzati così dai sovietici, in senso spregiativo, che ne volevano evidenziare la selvaggità e che hanno tentato con ogni mezzo, ivi compresa la forza, di civilizzarli, costringendoli ad abbandonare il nomadismo.
Li volevano sedentari e per questo hanno costruito dal niente il centro abitato di Tsagaannuur – dove avrebbero dovuto lavorare nelle fabbriche del pesce, sfruttando le risorse ittiche del lago. Piuttosto che piegarsi al volere altrui, alcuni si sono lasciati morire nelle acque gelide del lago, altri sono scappati nei boschi di larici dove i sovietici non li avrebbero seguiti, perché non sarebbero stati in grado di sopravvivere.
È quindi soltanto grazie al loro orgoglio che oggi continuano a vivere secondo il proprio sentire e le proprie tradizioni. Continuano ad usare un dialetto turco-altaico, con ogni probabilità una delle lingue meno parlate nel mondo dato che non sono più di 250 persone.
Abitano nelle urtz, più simili alle tende degli indiani d’America, in cui ogni elemento che le compone è un simbolo sacro: la stufa rappresenta il fuoco, il bollitore (sempre acceso) l’acqua, il pavimento qui privo di copertura (e quindi gelato) – la terra, il foro del cono in alto l’aria, da cui si può vedere tengher – il cielo.
Quando arriviamo è ormai buio e veniamo accolti nella tenda del capofamiglia, dove ci viene subito offerto da bere qualcosa di caldo, che è maleducazione rifiutare.
Il galateo mongolo vorrebbe che la tazza (più che altro una scodella) venisse raccolta con due mani e portata subito alle labbra, senza appoggiarla. Seguo le regole, ovviamente, e mando giù un sorso di quella che è la loro bevanda tradizionale: un misto di latte fermentato, thè e sale (non la trovo buona ma non ho il cuore di dire di no).
Mentre scrivo, so che l’accampamento non esiste più: i primi di gennaio sapevano già che a fine mese – quando le renne avrebbero ormai esaurito i licheni ed il terreno non sarebbe più stato buono per il pascolo – avrebbero dovuto spostarsi più a nord. Dalla sopravvivenza degli animali dipende quella delle persone, per cui la scelta è obbligata.
Quando usciamo per andare a riposare, mi sento seguita. Nel buio mi volto e per lo spavento (temo di incontrare i lupi) faccio un salto che finisce in una risata incredula: gli occhi che brillano nel buio sono quelli di una renna, e subito dietro ne spuntano altre. La guida mi porta del sale fino di cui le renne sono ghiotte e che senza timore mangiano direttamente dalle mie mani.
La nostra tenda è piccola – dispongo del minimo spazio vitale – e piena di spifferi. Mi preparo per la notte: completamente vestita mi infilo dentro a due sacchi a pelo, sotto una coperta, mi proteggo il viso con passamontagna e colbacco e metto adesivi caldi su piedi e nuca.
So che quando si spegnerà il fuoco non ci sarà più molta differenza tra dentro e fuori, e infatti al risveglio trovo tutto congelato: salviette, bocce d’acqua da 5 litri, coca cola, olio idratante. L’unico modo per avere l’acqua per lavarsi i denti appena svegli è tenere una bottiglia dentro al sacco a pelo.
Quando esco dalla tenda l’alba è arancio e rosa acceso. Gioco con i cuccioli di cane mentre aspetto la colazione, poi con la guida ci addentriamo nel bosco, per raggiungere le renne al pascolo.
Passeggiamo per circa 45 minuti: tanto basta per ricoprire il mio colbacco di ghiaccio e sentir gelare i piedi, a cui perdo la sensibilità. Ho l’affanno e non capisco perché, poi ricordo che mi trovo a 2000 mslm e il termometro segna meno 22.
Quando troviamo le renne, ci sediamo in mezzo a loro nella neve e accendiamo un falò per riscaldarci. Il capo tribù – nel rispetto della natura – raccoglie soltanto arbusti secchi e rami spezzati per alimentare il fuoco, che in un attimo crea una magia: le scintille illuminano come piccole lucciole l’aria e la neve, già brillante per il riflesso del sole, luccica. Intorno a me – nel silenzio riempito soltanto dallo scoppiettio del legno che arde – tutto splende. Lo conservo come uno dei ricordi più belli.
Nel primo pomeriggio la guida ci accompagna per una passeggiata tra i larici in sella alle renne. Sono animali mansueti e non molto alti, per cui non ho paura e mi godo il giro. Al rientro, i bambini hanno allestito per noi un piccolo negozio di artigianato, stendendo a terra un panno: qualche braccialetto fatto con ossa di renna, corna intagliate con disegni raffiguranti scene di vita quotidiana e poco altro.
Ovviamente contribuisco al bilancio del negozio acquistando almeno tre articoli. Per cena siamo ospiti nella tenda di Uvgudarj e di sua moglie Daarimaa. Con loro ci sono i nipoti Undarmaa, una bambina di 8 anni il cui nome significa “cascata” e Uuganaa, un bambino di tre anni il cui nome significa “gioia”
Hanno cucinato per noi uno stufato di renna con pasta fatta in casa. Ci tratteniamo anche dopo cena, cercando di partecipare alla conversazione con l’aiuto della guida. Un famoso proverbio mongolo recita: “all’ospite si offrono sorrisi, non domande”. Ne ho ricevuti di bellissimi: sono stata guardata da queste persone semplici con una curiosità sempre discreta e con una gentilezza spontanea e mai forzata.
È facile qui, dove le tende non hanno porte da chiudere a chiave e tutto è condiviso, avere fiducia, lasciarsi andare, farsi coinvolgere.
Domani partiamo verso il lago Khosvgol e ho già la malinconia di questa bellezza.
Giorno 6 – Verso il Lago Khogsvol
È arrivato il momento di lasciare gli uomini renna. La notte è trascorsa nonostante addormentarsi non sia stato facile: poco dopo essermi infilata nei sacchi a pelo, i cani hanno cominciato ad abbaiare con insistenza e ho temuto visite poco gradite. I lupi sono sacri: sono gli animali inviati dal Cielo, gli archetipi della stirpe, i possenti antenati.
Non è un caso che l’imperatore Genghis Kahn sia chiamato “il lupo azzurro”. Così fanno paura ma vengono trattati con rispetto. E io nel buio paura la sento, ma ho anche fiducia in queste persone sconosciute che da sempre vivono qui, in condizioni estreme, e che hanno imparato a convivere con loro.
La giornata si preannuncia lunghissima. E lo sarà. Attraversiamo prima una enorme vallata, guidando dentro al letto di un fiume e poi nella steppa, e puntiamo dritti verso la catena montuosa che si staglia all’orizzonte. Dietro quelle montagne c’è la nostra destinazione: il lago Khosvgol.
Da quando siamo partiti, “una destinazione” è tutto quello che abbiamo: seguiamo – semplicemente – una direzione.
Così puntiamo dritti a est. Prima o poi (e sarà decisamente “poi”) arriveremo.
Facciamo soltanto una breve sosta per pranzo e ripartiamo nel primo pomeriggio, quando cominciamo ad attraversare le montagne: la “strada” si fa davvero dura, un saliscendi continuo, perché il terreno è sconnesso e il fuoristrada è costantemente sballottato a destra e sinistra. Punto i piedi contro il sedile davanti e cerco di tenermi in modo da riuscire anche a scattare qualche foto.
Vedere il tramonto tra queste montagne è emozione pura. La luce cambia, taglia le vallate e le cime dei larici e ci illumina da angolazioni sempre diverse. Quando ci lasciamo alle spalle la catena montuosa ecco davanti a noi quell’immensa distesa di ghiaccio che è il Lago Khogsvol. Non si vede la fine.
La guida non ci informa sulla strada che resta da percorrere, ma vedo una luce in lontananza sulla sponda destra e penso che sia l’insediamento cui siamo diretti. “Ormai siamo arrivati”, penso. E invece davanti avrò ancora quattro ore buone di strada. Mi sto godendo il paesaggio e il fascino di questi km fino a quando, verso le 21, nel buio del bosco illuminato soltanto dalla luna quasi piena e da una coperta di stelle, incrociamo incredibilmente una jeep.
La prima casa è a sei o sette ore buone da dove ci troviamo, quindi non capisco dove vadano a quest’ora. Con mio grande stupore, per la prima volta, ci fermiamo “per chiedere indicazioni”.
Indicazioni? Cioè ci siamo persi? Ricapitolando: siamo partiti 12 ore fa, abbiamo fatto benzina alle 15, è buio pesto, il termometro segna meno trenta gradi e possiamo scegliere tra fermarci a dormire con il fuoristrada in mezzo a un bosco pieno di lupi o su un lago ghiacciato che scricchiola.
Per la prima volta ho paura, e comincio a prepararmi psicologicamente al concetto di “sopravvivere al gelo di una notte in fuoristrada”. Solo verso le 23, alla vista della nostra gher, posso finalmente rilassarmi. Sono sfatta dalle emozioni – compresa la paura – e dalla bellezza di questo paesaggio. Nonostante la stanchezza, il primo pensiero va subito all’alba di domani: punto la sveglia presto perché proprio non me la posso perdere.
Giorno 7 – Lago Khogsvol
Ho dormito su qualcosa che assomiglia ad un materasso, e le mie ossa hanno ringraziato. La gher, in confronto alle tende coniche degli uomini renna, è un appartamento di lusso: ho spazio per muovermi e aprire la valigia, e non ci sono spifferi.
Così riesco e cambiarmi per la seconda volta in una settimana e a “lavarmi” con le mie amate salviette (una volta scongelate). Ho fatto bene a mettere la sveglia presto e infatti vivo ore magiche ed indimenticabili.
Il giorno nasce sospeso nel silenzio immobile e glaciale. Prima è una piccola fessura all’orizzonte di luce gialla e arancione che timida buca il cielo scuro della notte, poi esplode in un arancio intenso e rosa e viola che raddoppia la sua potenza riflettendosi su uno specchio di ghiaccio.
Rientro in tenda giusto il tempo per riprendermi dal gelo – lo spettacolo di colori è troppo bello – e faccio colazione sull’uscio della gher. Sono in ammirazione, rapita dalla serenità e dalla pace di questo posto. L’unico rumore che si sente è quello del ghiaccio che si rompe, perché al sorgere del sole la temperatura sale e si aprono le crepe.
Per i mongoli che abitano queste sponde tutto questo è quotidianità, infatti non temono il lago, su cui camminano e guidano con fuoristrada e moto (in moto!) senza alcun timore.
Quando sono le 11 e splende il sole i nostri cavalli sono pronti per accompagnarci a vedere il lago dall’alto di una collina. Sono selvaggi e sono stati recuperati nel bosco per noi da un signore che abita qui vicino: ci spiega che ne ha trovati solo 4, per cui la guida – che è anche l’unica a parlare inglese – non potrà accompagnarci. Ci allontaniamo così, in sella a cavalli non addomesticati, senza alcun accorgimento o misura di sicurezza e al trotto.
Non posso negare che siano state due ore impegnative: sali e scendi su sentieri sconnessi, a meno 15, senza riuscire a comunicare con loro. Chiedo di rallentare, in inglese e in italiano, poi opto per alzare la voce e mostrarmi arrabbiata, per fargli capire che vorrei andare più piano.
Alla fine mi arrendo, e faccio l’unica cosa che posso fare per riuscire a rilassarmi: canto. A voce alta. Senza vergogna, anche se con il dubbio di passare per matta.
Ma so che in Mongolia si trascorrono serate intere nelle tende ad intonare tutti insieme canti popolari e da quando sono arrivata, sia nella capitale che nei centri abitati più piccoli, ho notato un quantitativo incredibile di locali karaoke.
I mongoli cantano spessissimo anche da soli e ho già sentito la guida intonare qualche motivo più di una volta.. perciò non ho remore e regalo al mio cavaliere la mia personale selezione di brani di Lucio Battisti. Bastano poche strofe al mio accompagnatore per capire che ho intenzione di cantare sul serio e come immaginavo non gli dispiace affatto.
Spalanca un sorriso con gli occhi che brillano e mi fa cenno di andare avanti. Ad ogni pausa, mentre scelgo il brano da cantare, mi incoraggia a continuare. Non mi sono mai sentita così libera.
Trascorro l’intero pomeriggio a giocare e a lasciarmi incantare da una bambina spuntata dal niente, che non può avere più di sei o sette anni.
È L’emblema della spontaneità. Del cuore aperto. Non mi conosce e nessuno ci ha presentati, ma non ha paura. Non ha visto in me una strana signora con la pelle bianca e gli occhi chiari e rotondi, che parla una lingua incomprensibile.
Ha visto due mani porgerle un quaderno e delle matite colorate (che avevo portato da casa), e una persona disponibile a dedicarle tempo. Le è bastato questo per aprirmi il suo cuore. Imperterrita ha cercato di insegnarmi i nomi di cose e animali disegnati su quel quaderno, ripetendomeli anche più volte quando non capivo, e pretendendo da me di ripetere quello che pronunciavo male.
Mi ha pettinata, truccata, presa per mano e portata a vedere le oche, trascinata sul lago. Per lei ho superato la paura del ghiaccio che si rompe e l’ho accompagnata. Oggi sento una grande nostalgia ripensando a quei momenti e per un mondo in cui puoi capirti anche se usi un altro alfabeto, perché è sufficiente quello del cuore.
Giorno 8 – Rientro a Moron e Ulan Bator
Siamo andati a dormire presto, dopo essere stati invitati ad una piccola festa di compleanno a cui hanno partecipato tutti i Nomadi nelle vicinanze: il menù prevedeva stufato di cavallo con patate, torta al pan di Spagna (a kg) e vodka liscia (letteralmente a litri). Andiamo a dormire presto, perché la sveglia è alle 4.30 e davanti abbiamo qualcosa come 19 ore di strada. Il volo che avevamo prenotato è stato cancellato, e l’unica alternativa è arrivare a Moron con il nostro fuoristrada e riprendere un autobus sino alla capitale.
Unica consolazione: anche oggi la giornata è splendida e possiamo goderci la strada che all’andata abbiamo percorso interamente al buio. Il paesaggio ci fa compagnia. Arriviamo ad Ulan Bator a mezzanotte passata e nella confusione di recuperare i bagagli mi rubano il telefono dalla tasca della giacca.
È l’unico neo di un viaggio che ha superato ogni aspettativa. Intanto – dopo il trasferimento estenuante e SETTE giorni senza doccia e acqua corrente – in albergo finalmente rivedo un bagno degno di questo nome.
Dovremmo provare più spesso a toglierci le cose che inevitabilmente finiamo per dare per scontate. Scopriremmo che veder uscire acqua calda da un rubinetto può dare la felicità.
Giorno 9 – La capitale: Ulan Bator
Dedichiamo un giorno alla visita della capitale, più che sufficiente soprattutto in questa stagione: in inverno i musei sono spesso chiusi o tengono un orario decisamente ridotto. Vale comunque la pena curiosare per la città, forse una delle più assurde che io abbia mai visitato.
È situata quasi nel centro esatto della Mongolia e in considerazione del fatto che si trova a 1350 mslm, molto lontana dal mare, e sotto al 50º parallelo, è la più fredda capitale del mondo. La temperatura media annua è inferiore allo zero centigrado: questo significa che la città si trova nella zona del permafrost sporadico, quindi anche se in estate il terreno scongela in superficie, poco sotto il suolo resta gelato.
Questo rende difficile e molto costosa la costruzione di fabbricati di grandi dimensioni, che comportano la realizzazione di fondamenta in profondità, con conseguente creazione di un calore innaturale nel sottosuolo.
La città mostra i segni della dominazione cinese prima e di quella sovietica poi. A questo contesto già di per sè confuso, si aggiunge l’impronta buddista e il desiderio di modernità. Il risultato è una accozzaglia di palazzi di epoche e culture diverse, tra cui si aggirano ben poche persone a piedi e molte in macchina.
Da Ulan Bator passa la Transmongolica: costruita nel 1940, la linea ferroviaria collega la Russia (Ulan Udè) (e quindi la Transiberiana) con la Cina, (Pechino). Anche la città mi regala una emozione: uscendo da un museo, mi accorgo che una famiglia ci sta guardando. Il papà ci indica al figlio di 4 o 5 anni: gli mostra – probabilmente per la prima volta – come sono fatti gli “occidentali”.
È strana la sensazione di sentirsi “diversi” e per giorni e giorni non incontrare un europeo o, più in generale, qualcuno che non sia “asiatico”.. ma anche questo fa parte del fascino del viaggio e ci ricorda che tutto è sempre relativo. Dipende solo dalla prospettiva. Gli altri, siamo noi.
Giorno 10 – da Ulan Bator a Genova
È tempo di rientrare. In tanti mi hanno chiesto: “Ma perché sei andata in Mongolia?? Che poi da vedere cosa c’è??”
Oltre ad avere un debole per la natura incontaminata, motivo e risposta sufficiente per intraprendere un viaggio in questo Paese di straordinaria bellezza paesaggistica, alla seconda domanda mi verrebbe da rispondere “NIENTE”. È che la Mongolia non è un posto da “vedere”, è un posto da vivere.
Considerare questa meta esclusivamente per i panorami mozzafiato sarebbe comunque un errore, perché la cultura mongola e la storia del suo impero, costruito dal leggendario Gengis Kan, meritano un approfondimento. Forse non tutti sanno che per il Washington Post è “l’uomo del millennio” e secondo una ricerca dell’American Journal of Human Genetics circa 17 milioni di persone nel mondo discendono direttamente da lui.
Ma c’è di più. Ho letto che “quando si torna da un viaggio in Mongolia si torna più completi, lucidi, consapevoli, spirituali. Non si ha più bisogno di ingannare nessuno, tanto meno se stessi. Con i suoi spazi e le sue gentili creature, è la purificazione del corpo e dell’anima” (F. Pistone, Il Ghepardo e lo sciamano).
È così. La Mongolia ti costringe a guardarti dentro. A ricordarti l’essenziale. A tornare al cuore delle cose. Ecco perché la Mongolia è un posto da vivere. E allora una domanda ve la faccio io: “perché non siete ancora andati in Mongolia?”