Nella capitale la cerchia dell’Himalaya non è visibile se non da alcune balconate naturali che sorgono in periferia, ma devi organizzarti perché la fine della stagione dei monsoni lascia in autunno splendide albe limpide, ma la vista dei colossi montuosi è limitata a poche ore, poi le nuvole immancabilmente si alzano con il sole e ne coprono la vista.
Giravo fuori le mura, dove la città non strizza l’occhio al turista, sulle rive del Bagmati, il fiume sacro affluente del Gange. Lì i miserabili avevano eretto sul greto le loro baracche. Le rive del fiume ti possono sorprendere ad ogni angolo: è un mondo fatiscente, dove si possono ritrovare i resti, trascurati, sporchi e dimenticati, di passati splendori. Ho visto mettere ad asciugare il riso sulla paglia stesa sulle rive sassose, bimbi giocare, donne lavare i panni e stenderli ad asciugare dovunque battesse il sole, in mezzo a capre o mucche che pascolavano… Ho visto immondizia scaricata ovunque, subìto il violento contrasto fra la miseria del posto e la bellezza della natura intorno…
Finalmente riesco a trovare un’agenzia che riesce ad ottenere il visto d’ingresso per la Cina. E’ costoso perché si vola da Kathmandu a Lhasa, e il solo fatto di sorvolare la catena himalayana è cosa da ricchi. Ma è la mia sola opportunità: non mi basterebbero i giorni per andare e tornare via terra, poi vorrei diversificare il percorso: andata in aereo e ritorno via terra.
Il pacchetto dell’agenzia include solo il volo e una notte in hotel, poi bisogna arrangiarsi, ma non mi pongo problemi. La mattina prestissimo arriva un pulmino che raccoglie i turisti e ci porta all’ aeroporto appena fuori città. Lì trovo turisti multietnici nella sala d’aspetto, gruppi di trekker diretti a Namche Bazar per intraprendere la salita al campo base dell’Everest o per vedere la piramide del CNR italiano posta in una valle laterale del Khumbu, tutti entusiasti per la partenza verso le loro mete.
Io aspetto l’imbarco su un aereo della China Southwest Airlines, mai sentita nominare prima di allora. Le persone in attesa sono poche, una decina; tutti si interrogano sulle dimensioni del velivolo che dovrà sorvolare la catena himalayana – sarà piccolo? sarà sicuro? – quando arriva l’ordine di imbarco e ci prepariamo al decollo.
La nebbia mattutina che incombe ancora sulla valle rende il paesaggio fiabesco, tutto sembra dormire sotto quella coltre. Lo stupa di Bodhnath fa da sfondo alla pista.
Si decolla, l’aereo si alza, passa attraverso quelle nebbie spesse, cerco di intravedere Kathmandu avvolta in un soffice velo che sembra cotone; per lo spazio di un attimo uno schermo grigio non permette nessuna vista, poi un raggio di luce: si esce dalle nuvole ed ecco le montagne, la catena che separa le due placche tettoniche della terra apparire! Il sole sta illuminando le cime più alte. Individuo la sommità dell’Everest, la sagoma è familiare. Cerco di capire se c’è la neve fresca, a che altezza si sarà posata; ci stiamo avvicinando e saliamo di quota, puntiamo dritto verso il colosso. Man mano che il sole si alza si riesce a distinguere il profilo dell’intera catena sul lato nepalese, si vedono i terrazzamenti coltivati fino a 4000 metri di un bel verde intenso. Seguo le tracce di sentieri che salgono fino a valli sperdute. L’aereo vira verso est, siamo sugli ottomila metri di quota, correnti ascensionali prossime alle montagne fanno traballare il velivolo. Si vede bene il Lothse sulla destra dell’Everest; tra questa cima e quella del Khanchenjunga, entrambe oltre gli 8500 metri, passa una una valle dove l’aereo si infila. Pochi minuti e ci lasciamo alle spalle il lato nepalese: siamo in Tibet. Ora la catena Himalayana si rivela immensa nella sua estensione; spostandosi da un lato all’altro dell’aereo si riesce a seguirne il profilo dai finestrini , mentre si sorvolano altre valli più in basso. Rimango colpito dall’altopiano sottostante: non c’è un dislivello graduale, l’enorme base piatta è posta a 4-5000 metri, si capisce bene come i due versanti poggino su due piani distinti. La catena sul versante cinese si interrompe quasi subito, ci stiamo allontanando puntando verso est. Passiamo sopra cime di cui non conosco il nome. L’ultimo ricordo di quell’attraversamento che durerà non più di 40 minuti è la vista di due immensi ghiacciai quasi gemelli che scendono paralleli.
I laghi che si stanno formando alla loro base mi fanno capire che anche qui il cambiamento climatico è in atto. Scendiamo lentamente di quota in una ventina di minuti, sotto di noi un paesaggio desertico; cerco di individuare qualche segno di vita, ma non c’è nulla. Si atterra in una valle stretta, una sola pista in un luogo lunare: pietre, sassi e polvere. Solo una piccola costruzione, come in un aeroporto privato, fa da posto di frontiera. Sbrigate le formalità doganali vengo preso in consegna da tibetani (o cinesi?), che ci porteranno all’hotel prenotato a Lhasa. Il pulmino è una Fiat Iveco, ed è una gradita sorpresa, come se avessi incontrato un compaesano. I turisti vengono smistati in base a misteriosi criteri, e con me salgono due ragazze giapponesi e un americano. La strada segue le sponde di un fiume in un paesaggio totalmente arido e roccioso, adeguandosi per chilometri e chilometri alle conformità naturali che si susseguono; non c’è anima viva, il colore grigio marrone è dominante. Appena l’acqua del fiume forma un bacino l’azzurro intenso del cielo ci si specchia, creando forti contrasti di luce. E attorno a questi laghetti anche la vegetazione prende vita. Lhasa è lontana 90 chilometri, ma la nostra velocità è limitata per la strada disagiata, passerà un’ora abbondante prima che finisca questa vallata ampia e si scorga all’orizzonte la sagoma della capitale posta a 3650 metri di altitudine. Adesso i pochi appezzamenti sulle rive del fiume sono ben coltivati, filari di alberi posti ai lati della strada ci scortano all’ingresso della città; ma sono deluso, non potevo vedere nulla di più modesto. Certo il Potala è immenso, occupa l’intera collina, ma oltre a questo solo piatte casette bianche fino alla strada principale che separa in due la città che mi immaginavo più grande.
Ci fermiamo davanti a un hotel spartano, gestito da cinesi, che qui hanno il controllo economico di qualsiasi attività.
Non ci sono altri clienti, hanno tante camere vuote ma decidono di sistemarci a coppie per risparmiare sul riscaldamento. Mi toccava dividere la camera con uno sconosciuto. Non proprio il massimo, considerato anche che era un americano molto sicuro di sé che continuava ad agitarsi e a protestare per la situazione, senza peraltro riuscire a ottener nulla.
La mia curiosità era al massimo, volevo uscir subito, andare in giro per scoprire il più possibile nel breve tempo rimasto: essendo autunno inoltrato il sole scendeva presto e la temperatura crollava appena il sole scompariva. Ma avevo un fastidioso mal di testa, che attribuivo alla stanchezza per il viaggio. Capii più tardi che era un disturbo dovuto all’altitudine. Infatti nei giorni seguenti il mal di testa mi accompagnò quasi sempre.