California, Yosemite Park: in cammino tra pareti rocciose e sequoie giganti
Siamo seduti fuori dal Ponderosa Lodge. Sulle nostre teste sventola la bandiera a stelle e strisce, sollazzata dagli scherzi della brezza serale.
L’odore della pompa di benzinaarriva fino a noi, mescolandosi a quello dei boschi che ci circondano nel raggio di un centinaio di chilometri, un tappeto verde di sequoie giganti che copre le colline quasi senza soluzione di continuità, segnato soltanto da poche cicatrici d’asfalto.
Nell’ombra della sera la vetrina dello store comincia a risplendere nel carosello di piccole insegne al neon che si riverberano in un’accozzaglia di scatolette, bottiglie di birra, canne da pesca, sacchi di carbonella, T-shirt e ammennicoli vari da campeggio e accalappiamento turisti.
Dal bar arriva un vociare eccitato: c’è la partita dei Lakers e un pubblico eterogeneo si è appollaiato sui trespoli del bancone, trangugiando pinte di birra a profusione con gli occhi inchiodati al televisore.
Noi siamo in veranda a farci una sigaretta, degna conclusione della sospirata cena a base di T-bone stake, sour cream e baked potato (Giuda chi dice che negli States si mangia male!).
Sulla panca accanto fuma la pipa del vecchio proprietario del lodge: barba bianca fino alla pancia, occhiali tondi e faccia rubiconda, camicia a scacchi e salopette di jeans. A fargli una foto la si potrebbe usare come copertina per un’Antologia di Spoon River!
Hi guys, come here and tell me something about the country where you come from!
Gli raccontiamo dell’Italia e della nostra vacanza d’arrampicata oltreoceano, degli amici di Yosemite, che ci hanno detto che qui a sud, nei Needles, ci sono le più spettacolari guglie di granito degli States.
Lui disegna in poche frasi la sua vita: gli Anni ’50, la fuga dalla città, i decenni trascorsi qui fra le sequoie a cucinare trote e prendersi cura degli ospiti del lodge. La felicità.
Restiamo a lungo in silenzio e il ronzio di un motore lontano diventa rombo. Un pick-up sfreccia sulla strada. Sul cassone un lama rumina placidamente con le orecchie al vento.
Il rombo torna ronzio e si dissolve nella notte. Il nostro amico suggella la visione con un’alzata di spalle e quattro parole: “We are in California!”.
Probabilmente ciascuno dei sette miliardi di uomini che popolano questo mondo ha la sua America: amata, odiata, maledetta, sognata, rincorsa, raggiunta, ricordata.
La mia l’ho trovata lì, sulla veranda del Ponderosa Lodge, o forse l’ho solo riconosciuta dopo averla incontrata nei vari Junction qualcosa, disseminati sulla carta geografica: un incrocio di strade e quattro case strette attorno a una bandiera, a difendersi dall’assedio di una natura tanto magnifica quanto temibile per la sua potenza e immensità.
Sarà solo un’illusione romantica, ma nei paesini della provincia profonda mi è sembrato di afferrare un poco il senso di quel patriottismo americano che, al palato di noi europei, sa tanto di retorica e maniera.
Alzare quella bandiera è come dire: anche noi, qui nel bel mezzo del nulla, siamo l’America.
E bisogna gridarlo forte (anche cantarlo con la mano sul cuore), per convincersi, fra le praterie infinite, sotto il sole del deserto o nell’ombra cupa delle foreste, di non essere davvero gli unici esseri umani sulla faccia della Terra!
I templi della Natura
La prima volta in California ci sono stato da scalatore, uno dei tanti che ogni anno migrano da ogni parte del mondo verso lo Stato Dorato, attirati dalle suggestioni delle immense pareti di El Capitan e dell’Half Dome, da quelle letterarie-artistiche delle opere dello scrittore e naturalista John Muir e del pioniere della fotografia Ansel Adams.
Tutte queste reminiscenze si mescolano e si fondono nel sogno della Yosemite Valley e della wilderness.
Curioso che il mito popolare della natura selvaggia abbia preso forma proprio qui, nel più popoloso degli stati dell’Unione, la California, che oggi conta oltre 38 milioni di abitanti.
Uno stato dove le aree incontaminate, per quanto magnifiche, si contendono lo spazio vitale con il reticolo delle città e non hanno certo l’immensità delle zone desertiche degli stati centrali o delle foreste dell’Alaska.
Ma forse è proprio sul crinale dove la civiltà comincia a divenire una presenza ingombrante ed oppressiva che si inizia a percepire la natura come il luogo della libertà e della vita autentica.
Di tutto ciò era ben consapevole Muir le cui opere, anche quando prendono la forma del trattato geologico o naturalistico, sono piene di una vibrante meraviglia che va ben oltre l’interesse scientifico e non perdono occasione per sottolineare l’importanza del contatto con la natura incontaminata come esperienza indispensabile nella vita dell’uomo.
Celebre la frase che si legge ne “La mia prima estate nella Sierra”, uno dei suoi libri più noti: “Ero uscito solo per fare una passeggiata ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto, perché mi resi conto che l’andar fuori era, in verità, un andare dentro”.
Fu proprio durante una delle sue “fughe” dal caos cittadino di San Francisco, che Muir si imbatté per la prima volta nella Yosemite Valley e nelle sue monumentali architetture granitiche, che egli definì senza esitazione: “Il più grande di tutti i templi della Natura”.
La Yosemite Valley non è stato certo il primo dei parchi nazionali americani (questo primato spetta a Yellowstone) ma la battaglia portata avanti da Muir per la sua tutela.
Muir fondò anche il Sierra Club, una della più prestigiose e antiche associazioni ambientaliste americane e il suo lavoro ha segnato profondamente il rapporto della società americana con la natura, con un influsso non indifferente persino sulla politica nazionale.
Dietro l’impegno che il governo di Washington profuse all’inizio del ‘900 per la tutela ambientale probabilmente c’è anche quella celebre escursione che Roosvelt effettuò con Muir nella Yosemite.
Quando il presidente e il naturalista trascorsero tre notti di bivacco all’aperto che rimase impressa per sempre nella memoria del Presidente e lo convinse a moltiplicare gli sforzi (e le risorse) in favore delle aree protette.
Quello che gli scritti e l’opera diplomatica di Muir fecero negli Stati Uniti, le spettacolari immagini in bianco e nero di Ansel Adams lo fecero nel mondo intero, dando il contributo definitivo alla diffusione del mito della wilderness americana.
Di tutte queste suggestioni è impastata anche la Yosemite sognata dagli arrampicatori e, certamente, la scalata nella valle non è fatta solo dalla risalita di qualche centinaio di metri di roccia, ma dall’immersione completa nella natura, che passa prima di tutto attraverso i sentieri che portano verso le pareti.
Per addentrarsi nella vera natura della valle bisogna essere innanzitutto buoni camminatori, non solo per la “gamba” necessaria ad affrontare le lunghe escursioni di avvicinamento, ma anche per lo spirito che serve a gustare la meraviglia dei boschi secolari.
Durante il cammino si incontrano quelli che Muir definiva i veri sovrani della Sierra: quelle sequoie dalla corteccia spessa come una corazza che né il fuoco né i parassiti possono intaccare, che il fulmine fatica ad abbattere e che sembrano poter morire solo per loro stessa volontà, collassando sotto il proprio peso.
Serve l’occhio attento dell’escursionista per godere degli incontri che si fanno in questi boschi: gli scoiattoli (un po’ troppo invadenti), i simpatici cipmunk (le versioni originali di Cip e Ciop), le ghiandaie di Seller (impertinenti e appariscenti nel loro abito blu elettrico), gli sgangherati coyote, i cervi e pure gli orsi, più o meno pacifici…).
Serve la passione del camminatore per fermarsi sul bordo di un dirupo e rimanervi a osservare i colori della valle mutare di minuto in minuto e la luce giocare con l’acqua che precipita dagli immani salti della Bridalveil fall e dalla Yosemite fall, due delle più alte cascate del Nord America.
Il lato oscuro…
Tutta questa meraviglia e tutta la sua fama internazionale hanno, ovviamente, un rovescio della medaglia.
Questa faccia “oscura” del mito me la trovai davanti al mio secondo viaggio in Yosemite (questa volta vissuto da puro escursionista assieme a mia moglie).
La morale potrebbe essere questa: state lontani dai Parchi Nazionali nei periodi in cui gli statunitensi sono in ferie!
Già, perché quello stesso popolo che ha partorito il concetto della wilderness e che lo ha vissuto e lo vive con autenticità, è anche in grado, con senso del kitsch tutto americano, di trasformare luoghi meravigliosi in baracconi da fiera sovraffollati.
Giorni in cui ogni cosa sembra uno sfondo posticcio messo lì per la foto ricordo e ti viene il dubbio che anche gli scoiattoli e le marmotte siano in realtà pupazzi meccanici che i ranger accendono la mattina e spengono la sera per il sollazzo dei turisti…
Insomma, il ritorno in Yosemite nel weekend del 4 luglio per me fu abbastanza traumatico.
A nulla valse la fuga dalla valle verso Tuolumne Medows, la meravigliosa prateria d’alta quota che la sovrasta e che si raggiunge percorrendo la strada del Tioga Pass, accesso al desolato versante est della Sierra.
Tuolmne è un luogo che sembra fatto apposta per le escursioni.
La quota di oltre 2000 metri è ideale per camminare anche nelle più calde giornate estive e i sentieri attraversano prati verissimi, dove i dislivelli sono moderati e i pendii dolci sono percorsi da centinaia di torrenti e punteggiati da laghetti glaciali.
Per chi ha un po’ più di dimestichezza con i terreni accidentati ed esposti non manca la possibilità di inerpicarsi sulla cima di qualche “dome”, le calotte di granito, spesso di forma semisferica, che si innalzano dalla prateria inondata da una luce degna dei migliori quadri di Segantini.
Paradiso ritrovato
Nel tardo pomeriggio di domenica, risalendo controcorrente il flusso dei turisti che rientravano a casa dopo il lungo weekend di passione, ci incamminammo sul facile trail che percorre il fondo della valle immerso nei boschi.
Un itinerario che permette di camminare sotto i maestosi profili di El Capitan, dei Royal Arches e della Washington Column, fino ad arrivare al cospetto della verticalissima parete dell’Half Dome.
Con noi avevamo il necessario per cucinare la cena e ci fermammo in una radura sulle sponde del fiume Merced.
Incredibile, nel giro di poche decine di minuti e poche centinaia di metri ogni rumore umano era cessato e la valle ora era riempita solo dai suoni della natura in una sera calda e accogliente!
Intorno milioni di vite sembravano affannarsi a godere fino all’ultimo raggio di luce della lunga giornata, quasi fossero consapevoli della brevità dell’estate e presagissero l’agguato delle tempeste invernali.
L’aria era piena di pollini e le trote saltavano nel torrente, condividendo con i rondoni il banchetto a base delle più strane varietà di insetti.
Nel più assoluto silenzio un giovane cervo si materializzò a pochi metri da noi.
Rimase a guardarci per qualche istante, poi scomparì per sempre nella foresta lasciandoci in dono questo pensiero:
“Eravamo qui prima di voi e lo saremo ancora a lungo dopo che tutte le voci delle città si saranno spente. Ma a noi o a voi non appartiene alcun diritto o prelazione. Il potere non è nostro, ma dell’infinita bellezza che ora ci rapisce”.