Nebbia e temporale nei paesaggi dipinti: natura ai tempi del Covid-19

27 aprile 2020 - 14:00

di Ines Millesimi (storico dell’arte e trekker)

 

Il coronavirus attacca i polmoni, fatichiamo a respirare se nostro malgrado ne restiamo contagiati. All’immagine straziante che vediamo tante volte in foto – un anziano con la bocca aperta che giace in un letto bianco – associamo d’istinto quella contraria, in grado di ribaltare l’idea stessa di mancanza d’aria: la montagna e la tanta aria che c’è lassù.

Andiamo in montagna per fare il pieno di ossigeno, di aria più pulita e senza allergeni. Oltre i 5000 metri di quota facciamo più fatica a respirare quando camminiamo, e il ritmo del nostro respiro lo dobbiamo cadenzare con il ritmo del nostro passo, più lento.

Concentrati, cerchiamo di ristabilire in armonia i rapporti: battito cardiaco, respiro, passo. Chi ha fatto il trekking in alta quota racconta di un’esperienza bella nella sua assoluta, cartesiana semplicità di passo dopo passo.

Ritorniamo a guardare il qui e ora. E l’immagine intorno non è meno stridente. In queste case, costretti alla clausura a causa del coronavirus e stretti in più persone tra quattro pareti, o nella solitudine di doversi bastare da soli, ci manca di più l’aria.

Come mai prima ci era successo, desideriamo gli spazi di libertà, cioè le montagne. Le immaginiamo risvegliarsi con la primavera e con lo sciogliersi umido delle ultime lingue di neve: sul finire di aprile tutte, anche quelle di prossimità, ci appaiono selvagge, pure, silenziose, amiche.

Eppure non sempre sono così le montagne. Possono essere insidiose, metterci paura. L’essere sorpresi dal buio, dalla nebbia, dal temporale in montagna, per esempio, ci scuote, ci mette ansia perché possiamo perdere il controllo dello spazio e del tempo, mettendo a rischio forse la nostra stessa vita.

Anche in questo caso ci vengono in soccorso i grandi maestri, i geni del Rinascimento che hanno cercato di rappresentare ciò che non può essere inscenato nel paesaggio, la paura e il mistero quando pur tutto sembra strutturato dentro un evidente, perfetto equilibrio di natura. Un conto è raccontarlo a parole, un conto è contenerlo in una sola immagine.

Come il Rinascimento ha rappresentato la paura

Nella precedente puntata Lo Spettacolo della Natura in tempi di Covid-19, abbiamo visto che nelle due versioni della Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci (1483 – 1484, Parigi, Musée du Louvre e 1490, Londra, National Gallery) i protagonisti espressivi sono la penombra dell’ingresso della grotta e il suo pulviscolo, la luce filtrata tra le rocce, i blu e i grigi della cime in lontananza, mentre in primo piano vediamo il mondo minerale e vegetale, verdi, marroni e terre.

Il dipinto ci attira per l’ambientazione, non solo perché appaiono dentro un’ideale piramide quattro figure divine messaggere di un concetto molto complicato, comprensibile solo per atto di fede, quello dell’Immacolata Concezione.

Ambiguità, vedo – non vedo, mistero, complessità. Si può esprimere tutto questo con la pittura? Prima di Leonardo no. Tutto era evidenza, anche lo spazio in profondità: ogni oggetto era rappresentato in modo chiaro, meticoloso, quasi a voler padroneggiare ogni cognizione di esso grazie alla prospettiva lineare o scientifica.

Ogni oggetto in ultimo piano poteva essere riconoscibile con i suoi valori tattili: oltre che esattamente collocato a distanza, era in relazione proporzionale con gli altri, perciò vero, credibile, chiaro. Leonardo invece si spinge oltre, osserva il paesaggio della Valle dell’Arno disegnandolo e inventa nuove tecniche per rendere la sua esperienza visiva più credibile.

Scopre che gli oggetti in profondità cambiano colore perché c’è l’aria che si frappone tra il nostro occhio e le cose. Le montagne lontane sono azzurre, se ci sono nebbie diventano veli chiarissimi e si leggono per giustapposta trasparenza. Tutte queste scoperte di scienziato e di tecnico gli derivano dal suo occhio scientifico, dall’esperienza indagatrice della mano che disegnava i fenomeni, anche atmosferici, soltanto per il gusto di capirli e da lì imbastirne la teoria.

Oltre alla prospettiva aerea, Leonardo inventa lo sfumato, che oltre ad aprire morbidamente il contorno allo spazio è anche modulazione sentimentale. Non si sa mai bene cosa provino le sue figure, si girano nello spazio, guardano l’osservatore in modo laterale; ci chiediamo cosa provino in quel momento, qual è il loro moto mentale. In una parola: sono loro che catturano noi.

E ci appaiono sempre così misteriose ed enigmatiche come i suoi paesaggi che si tingono d’azzurro o di verde in lontananza. L’ipersensibilità emotiva è quella che caratterizza la Gioconda (1503 – 1506 Parigi, Musée du Louvre), icona di mistero con il suo sorriso enigmatico, detto sorriso nascente.

Incredibile è poi l’allusione al legame continuo tra lei e il paesaggio sullo sfondo. Se potessimo leggere il dipinto in una chiave ecologista, diremmo che quel sorriso nascente, mai prima rappresentato fino a quel momento, rappresenta un altro futuro, quello di stare in equilibrio e non in opposizione con la natura, dominandola, sfruttandola, dimenticandola.

Ecco la chiave del mistero della sua bellezza: lei sta bene nel paesaggio naturale racchiuso in cornice. E quel paesaggio Leonardo lo ha racchiuso in una finestra aperta e piena d’aria da cui Monna Lisa si affaccia per guardarci non curante della nostra presenza, luminosa, con il suo sguardo laterale, quasi di passaggio. Non siamo forse esseri proprio “di passaggio in questo mondo”?

Il paesaggio montuoso alle sue spalle, forse ricordo della Piana del Valdarno Aretino e della Toscana della sua formazione, sembra imperfetto, mai finito forse, e alcuni studiosi pensano che Leonardo sia tornato sul dipinto prima di morire ricordando le balze delle colline proprio del Valdarno e il suo ponte, che crollerà due secoli dopo, nel ‘700.

È possibile, quindi, che il paesaggio alle spalle della Gioconda sia il paesaggio dell’anima, un luogo del cuore osservato e amato nella sua giovinezza. Ma secondo studi recenti può darsi che sia un paesaggio di fantasia, che mette insieme reali ma diversi punti di vista del paesaggio tra Romagna, Marche, Umbria e, com’è ovvio, Toscana.

Lo comproverebbe l’uso dei droni che grazie alle fotografie hanno permesso di dimostrare che i luoghi della Gioconda, tanti e diversi, sono veramente esistiti e tutt’ora visitabili.

La Tempesta di Giorgione: per comprendere lo spettacolo della natura

Quando saliamo in montagna e vediamo sotto di noi distendersi il velo di nebbia, ripensiamo a Leonardo e sforziamoci di ricordare il colore, le trasparenze, l’atmosfera che appaiono solo per noi in quell’istante.

E se la nebbia sale e diventa troppo spessa da chiuderci ogni passaggio in salita, torniamo indietro. Semplice: non vediamo, non vediamo più il sentiero e dove mettiamo i piedi, quindi la paura ci assale e Leonardo in quel momento non ci serve!

Ci viene in soccorso un altro dipinto misterioso, La Tempesta di Giorgione (1500- 1505 circa, Venezia, Gallerie dell’Accademia), un dipinto decisivo per comprendere lo spettacolo della natura.

Giorgione apprese dai pittori leonardeschi lo sfumato e lo applicò in ambiente veneto ad altri nuovi contesti per le Sacre conversazioni, cioè episodi religiosi che avvengono nel paesaggio. Giorgione inventò la pittura tonale e dipinse senza disegnare prima il soggetto, ma procedendo per velature soffuse di colore, sovrapposto e sottile.

I suoi sono timbri smorzati, l’immagine appare fuori fuoco, la lontananza è resa in modo poetico, caldo, accarezzato sempre da un certo tepore. L’atmosfera naturale circola liberamente nei quadri di Giorgione, ci sono le trasparenze che rendono il paesaggio misterioso, un’amplificazione dei sensi, accogliente anche quando sta per arrivare un temporale.

È la prima volta che una situazione meteorologica specifica, un temporale, una tempesta, giustifica il senso di un dipinto di un paesaggio con figure. Ma il titolo è convenzionale, tradizionalmente accettato, e non si capisce che sta a fare lì una madre seminuda che mentre allatta il suo bambino ci guarda, perché sia scortata da un soldato in piedi – un uomo vestito che sta a debita distanza da lei, accovacciata sull’erba -, perché sono immobili e tranquilli se sta arrivando un forte temporale.

Si tratta di una quadro ermetico, reso ancor più oscuro dal fatto che gran parte del dipinto è occupato dalla fuga del paesaggio (un fiume, un ponte, delle colonne classiche spezzate, le case venete intonacate che rispecchiano la luce che filtra dalle nuvole, una cicogna su un tetto dell’edificio più alto).

Soprattutto ci colpisce il cielo chiuso in alto, agli angoli estremi, dalle foglie di querce: minaccioso, carico di nubi scure e gonfie di pioggia, è squarciato improvvisamente da un fulmine. Come in montagna, ci sembra di sentirne il rimbombo e l’eco dopo l’esplosione di elettricità. Il quadro sembra squadernarsi sotto quel lampo, quasi dilatarsi, ripieno com’è d’aria e di vento.

Eppure la messa in scena misteriosa dello spettacolo della natura sta tutta nelle dimensioni contenute di un dipinto allegorico privato (cm 83 x 73), destinato alla comprensione dotta di una raffinata élite intellettuale che lo capiva molto meglio di noi. Il gioco di rimandi simbolici, infatti, muore per sempre con l’epidemia di peste che rapì anche Giorgione, poco più che trentenne.

A noi restano le molte suggestive interpretazioni, e tra queste l’idea che le figure possano alludere ad Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre con Dio che tuona, o a un rebus di contenuti alchemici ed esoterici basati sugli opposti (cielo e fuoco, terra e acqua, umido e secco, passività e attività).

A proposito di forze opposte, anche il nostro rapporto con la montagna è caratterizzato da un elementare dualismo, l’ascensione e la discensione. Dopo la salita, non possiamo andare oltre la cima, dobbiamo per forza ridiscendere.

Giorgione è attratto da temi difficili, dalle domande senza risposta. Nei tre filosofi (1504 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum), il più giovane è seduto su una pietra, scruta attentamente una grotta e la densità della natura, come in attesa di una rivelazione, impugnando un compasso e una squadra.

La natura può essere misurata?

Quando andiamo in montagna ci facciamo prendere dai numeri, dalla razionalità misurabile: quanto dislivello di salita, quanto è alta la cima, quanto tempo manca per la discesa.

Forse, predisponendo i nostri occhi agli spettacoli della natura che la montagna ci riserverà, libereremo il posto dai numeri per farci visitare da altro, da intuizioni, risposte e appagamenti che i Maestri della pittura ci hanno insegnato.

 

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