ASPROMONTE, montagna incantata
“Una montagna, un’isola”. Questa breve definizione potrebbe valere da sola a indicare i caratteri fondanti del Parco Nazionale dell’Aspromonte, la propaggine orograficapiù a Sud dell’Italia peninsulare, là dove la punta dello stivale si protende nocchieruta e impervia nel cuore del Mediterraneo.
L’Aspromonte, infatti, riassume in sé i crismi essenziali delle terre del Mediterraneo: una spiccata montuosità e un notevole patrimonio forestale, che lo rendono un luogo pressoché disambientato rispetto alla sua latitudine; una peninsularità marcatissima, che diviene quasi insularità se si pensa che per tre lati la montagna scende al mare e sul quarto è collegata al resto d’Italia da uno stretto, scosceso istmo.
Una perifericità geografica ed un isolamento culturale che sono la conseguenza della sua particolare dislocazione e delle altre due caratteristiche indicate sopra. Acque urlanti (le cascate), colonne del cielo (i patriarchi arborei), luoghi oscuri nella roccia (le gole fluviali), grandi pietre (le rupi dalle forme più bizzarre), presepi (i borghi arroccati), paesi fantasma (i villaggi in altura evacuati per le frane e le alluvioni), rovine (i siti archeologici di origine neolitica, greca, bruzia, romana, bizantina, normanna), misteri (le leggende e i miti), riti ancestrali (le feste sacro-pagane), esplorazioni e tracce (la possibilità di vivere vere e proprie avventure sulle orme di antichi popoli). Tutto questo e altro ancora è il Parco Nazionale dell’Aspromonte.
Poetica dei luoghi
Era pessimista Corrado Alvaro, massimo rappresentante della letteratura calabrese, quando scriveva nel 1930, in “Gente in Aspromonte”, riferendosi al suo borgo natio, San Luca: “Ancora i puledri col monello a bisdosso cavalcano pel sentiero secolare, e i buoi portano dall’alta montagna i tronchi d’albero legati a una fune trascinandoli in terra senza carro. È un fatto che qui manca la nozione geometrica della ruota. Ma per poco ancora. Come al contatto con l’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò questa vita. È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarne, chi ci è nato, il maggior numero di memorie.”
Alvaro avvertiva l’incombere della modernità, che avrebbe spazzato via un modo di vivere, un crogiolo di valori uguale a se stesso da tempo immemorabile. Eppure non aveva messo in conto che i processi storici possono essere lunghi e che, talvolta, il passato sopravvive in forme e luoghi inattesi. Così è accaduto in Aspromonte, dove accanto ai “non luoghi” creati dall’onda anomala dello sviluppo ad ogni costo, permangono tanti “luoghi” storici, relazionali, identitari, che sanno cioè rivelare memoria, che sono capaci di parlare e tessere dialoghi con gli uomini, che sono in grado di evocare quello che gli antichi chiamavano genius loci, divinità conoscibile solo da chi abbia conservato, nel proprio intimo, le facoltà dello sguardo e dello stupore. L’Aspromonte e il suo Parco rappresentano quasi un’anomalia nello scenario degli altri massicci appenninici.
Qui e forse solo qui, infatti, è in parte sopravvissuta una civiltà contadina e pastorale di stampo arcaico che non è rinvenibile altrove. Con vecchi pastori dalle maglie di orbace, il viso solcato da rughe profonde, la sporta di fibra di ginestra pencolante dalla spalla, l’accetta dal lungo manico come bastone, che conducono greggi di capre su per i monti e che raccontano storie leggendarie come fossero accadute appena ieri. Con i rifugi di pietra sotto i pini, affacciati su abissi insondabili e su panorami sconfinati, dove ancora si caglia la ricotta come al tempo di Omero.
Nel cuore di un mondo
Provate a inoltrarvi, ad esempio, nei meandri della vallata dell’Amendolea, immenso serpente di sassi che srotola le sue spire tra le dirupate pendici meridionali dell’Aspromonte. Il suo percorso è segnato, come pietre miliari, dalle rovine di Amendolea vecchia, in basso, e da quelle di Roghudi, in alto.
Entrambi paesi fantasma, i cui ruderi trasudano di ricordi, di storie, di leggende, di vissuto. Ma accanto a quelle rovine si trovano ancora i borghi vivi della Comunità Grecanica – Bova, Roccaforte del Greco, Gallicianò, Condofuri – dove si conservano lingua e tradizioni che risalgono alla dominazione bizantina e forse più indietro nel tempo. E Bisanzio permea di sé gran parte del paesaggio e della cultura aspromontani, se si pensa che il suo governo su questa estrema provincia occidentale durò, tra alti e bassi, per almeno cinque secoli (tra il VI e l’XI secolo).
Attrezzi contadini, oggetti di uso quotidiano e strumenti musicali dal Museo della cultura popolare grecanica di Gallicianò.
Dalle falde dell’Aspromonte, la lingua greca, prima sconosciuta in occidente, si irradiò in tutta Europa grazie a due monaci bizantini, Barlaam e Leonzio Pilato, entrambi di Seminara, maestri, rispettivamente, di Petrarca e di Boccaccio. Ed il monachesimo bizantino, proprio per la sua vocazione eremitica e solitaria, si diffuse in ogni valle, per ogni bosco, perfino sulle rupi più impervie, lasciando, a perenne ricordo, chiese, laure (gruppo di celle scavate nella roccia), cenobi, asceteri che funsero anche da catalizzatori di vita civile ed economica.
Poco discosto dai paesi della Comunità Grecanica, su un versante della montagna che scende verso la valle della fiumara La Verde, c’è un altro borgo fantasma, Africo, il cui nome evoca l’accorata campagna di aiuti che l’archeologo e filantropo Umberto Zanotti Bianco organizzò per la gente misera ed isolata del paese, tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso. A nulla servirono la costruzione di una scuola, di un ambulatorio, l’arrivo di aiuti economici che Zanotti Bianco rastrellò tra i suoi amici in tutta Italia spedendo loro pezzi del cibo base degli africoti, un immangiabile pane nero fatto di farina di lenticchie, cicerchie ed orzo.
Una delle tante alluvioni abbattutesi sul luogo spazzò via i tuguri ed i suoi abitanti (uomini, capre e maiali che convivevano nelle stesse stanze). Le foto scattate dallo stesso Zanotti Bianco nel 1928 e quelle di Tino Petrelli del 1948 per un’inchiesta dell’Europeo, testimoniano ancora quell’epopea. Gli africoti di oggi, trasferiti in massa vicino al mare, strappati ai loro luoghi ed alla loro memoria, stanno restaurando, con affetto e nostalgia, il vecchio paese. Ma il Parco è anche rappresentato da altri borghi, questa volta vivi e ben conservati.
Si pensi a Palizzi, a Staiti, a San Giorgio Morgeto, Mammola, Gerace (il paese, forse, artisticamente più importante dell’intera Calabria, con la sua grande cattedrale normanna impreziosita da colonne di marmo provenienti da antichi templi greci).
Una menzione a parte merita poi quel vero e proprio simbolo identitario che è il Santuario di Polsi, a 800 metri di quota nel cuore dell’Aspromonte, protagonista di una festa, quella della Madonna della Montagna, che si celebra ogni anno ai primi di settembre (ma anche di un ininterrotto pellegrinaggio estivo), che è l’occasione, per la gente di queste contrade, di ritrovare tradizioni e radici.
Ogni anno, dal 26 agosto al 2 settembre, il Santuario di Polsi è teatro di una festa religiosa di grandissimo impatto emotivo che culmina con la festa solenne della Madonna della Montagna di cui si venera una monumentale statua realizzata a Messina in pietra siracusana.
Alla fase delle preghiere, dei voti, delle penitenze fa immancabilmente seguito la parte ludica della festa, fatta di grandi mangiate di carne di capra cucinata nei boschi, di formidabili bevute e di sfrenate tarantelle al suono di organetti, zampogne, tamburelli e talvolta di un raro strumento tradizionale riscoperto da alcuni anni, la lira calabrese. E non esulano certo da questo denso contesto culturale, storico ed antropologico, le specialità eno-gastronomiche del Parco: pani caserecci fragranti e dalla mollica compatta, bianchi, integrali e anche con farina di segale; formaggi, pecorini e caprini su tutti, oltre alle ricotte conservate in fuscelli di vimini; paste di casa (i maccarruni) condite in particolare col sugo di capra; i salumi, soppressate e capocolli; i fagioli pappaluni e le decine di ortaggi coltivati nei piccoli orti aulenti. E poi ancora funghi, mandorle, miele, olio extravergine di oliva e vini.
I nostri itinerari
Alcuni sentieri sono realizzati in modo da essere percorsi agevolmente, altri richiedono un certo grado di dimestichezza, noi in questo articolo ne suggeriamo alcuni, però, dove presente, bisogna seguire la segnaletica in uso nei sentieri, perché rappresenta uno strumento di grande aiuto per affrontare in sicurezza la escursioni. I colori utilizzati per la segnaletica dei sentieri del Parco presentano uno striscia bianca e rossa sovrapposta.
Gallicianò: dove l’Aspromonte è ancora Magna Grecia
Aspromonte: canyoning lungo il torrente Furria
Aspromonte: le cascate Maesano
Storie di passi: il Santuario di San Nicodemo e il Passo della Limina
Aspromonte: dal Casello Forestale di San Giorgio
Testo di Francesco Bevilacqua / Foto di Gabriele Mastrilli e Francesco Bevilacqua
Foto storiche di Africo Vecchio risalenti al 1948. Furono pubblicate in occasione di un’inchiesta del giornale a firma di Tommaso Besozzi sulle condizioni di miseria e degrado assoluti in cui versava il paese. L’interesse per questo lontano paese dell’Aspromonte era stato destato sin dagli anni Venti dal grande meridionalista Umberto Zanotti Bianco, fondatore di Italia Nostra e della Croce Rossa Italiana. Le foto, insieme ad altre scattate in quell’occasione da Tino Petrelli, un reporter de “L’Europeo”, e a quelle del 1928 scattate dallo stesso Zanotti Bianco sono raccolte nel volume “Tra la perduta gente” edito da Grisolia. Si notino, nella foto che ritrae l’interno di un tugurio, il bimbo che suona la zampogna accanto ad una capra. Una delle caratteristiche del paese era proprio la convivenza degli animali domestici (galline, porci e capre) con gli esseri umani all’interno delle case. All’origine di tutto vi era la mancanza di una strada di collegamento del paese alla costa, e l’instabilità del suolo ove esso sorgeva, martoriato dalle frane e dalle alluvioni, la mancanza di un ambulatorio medico e di una scuola.
La ricchezza di ambienti del Parco determina la presenza di habitat molteplici, ideali alla proliferazione di un’incredibile quantità di specie floreali e vegetali che offrono uno straordinario bouquet di colori e profumi. La presenza del corbezzolo, della ginestra e dell’erica raccontano di atmosfere mediterranee mentre, non distante, le piante di castagno, le grandi faggete e i delicati licheni sono protagonisti del bosco. L’aquila in Aspromonte è severamente minacciata dalla scarsità di cibo e dal fenomeno del bracconaggio. Le testuggini comuni nel passato venivano allevate da alcuni ordini monastici perché le loro carni, ritenute altamente nutritive, erano tra le poche di cui la Chiesa cattolica consentiva il consumo nei giorni di astinenza. La sopravvivenza delle farfalle è un buon indicatore della qualità ambientale. Nelle faggete si nasconde il simpatico driomio (Dryomis nitedula), dalla folta pelliccia grigio chiara. Lo sguardo attento e fiero dell’aquila reale (Aquila chrysaetos). Il ramarro (Lacerta bilineata) era considerato velenoso dai contadini che ritenevano necessario rimuovere la parte ferita in caso di morso.