Scoprendo le tracce di storie passate, magnifici esempi d’arte e genio architettonico, atmosfere, scorci, luci, odori, profumi e suoni unici e irripetibili. Passeggiare nei borghi riconosciuti Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO consente di riappropriarsi di tutto questo…
Nel paesaggio sereno e luminoso che circonda i borghi italiani, questi si rivelano passo dopo passo, con i loro pittoreschi centri storici, su e giù per viuzze erte e sinuose, chiusi da edifici sacri, palazzi nobiliari, alti torrioni e scorci improvvisi su minuscole piazzette medioevali o grandi spazi, che erano centro del potere civile e del potere religioso.
È innegabile il fascino che suscitano i nostri borghi e non a caso tanti hanno ricevuto il riconoscimento UNESCO Patrimoni dell’Umanità! Sono soprattutto borghi rimasti immutati nei secoli, alcuni protetti da cerchie murarie, altri seguono i capricci delle colline aprendosi alla campagna… in questi borghi è un trekking senza meta e senza fretta: le dimensioni del borgo lo consentono.
San Gimignano come appare agli occhi di chi percorre la val d’Elsa, attraverso un paesaggio dominato dalla presenza di girasoli (Ph Enrico Bottino)
Anno di iscrizione: 1990Area di riconoscimento UNESCO: 14 ha
In cima ad un colle, a dominare l’intera Val d’Elsa e la verdissima campagna senese, ecco ergersi un centro storico di San Gimignano, che già da lontano appare incantevole e maestoso allo stesso tempo, con le sue torri simbolo del potere che catturano l’occhio prima di ogni altro elemento, e le case tutte attaccate l’una all’altra, come a volersi fare coraggio a vicenda nei momenti di difficoltà.
Ciò che più stupisce oggi camminando tra le strade lastricate di questo centro storico, dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1990, è il fascino rimasto intatto di un mondo che non c’è più: una volta oltrepassata una delle cinque porte del borgo, la sensazione è quella di fare un salto in un passato che sa di aristocrazie, signorie e patriziati, di intrighi e di misteri, di artigiani e di pittori, il tutto racchiuso all’interno della struttura urbanistica e architettonica più autentica, completa e suggestiva di una città toscana del Duecento e del Trecento.
Andando ad insediarsi su un sito abitato in precedenza dagli Etruschi, come testimoniano i numerosi ritrovamenti archeologici, San Gimignano nel Medioevo si trovava su una delle direttrici della via Francigena, che Sigerico arcivescovo di Canterbury, percorrendola tra il 990 e il 994, nominò Sce Gemiane, e che contribuì a rendere la città un centro emergente, in costante espansione territoriale e crescita commerciale.
La suggestione delle leggende s’intreccia al fascino della realtà di questo borgo antico, che è riuscito a rimanere in maniera sorprendente quasi del tutto inalterato nella sua bellezza secolare.
Tra le lotte intestine che coinvolgevano Guelfi e Ghibellini (i primi sostenitori del Papato, i secondi dell’Impero), e l’arrivo di ordini monastici come i francescani, i domenicani, gli agostiniani e le benedettine, anche Dante Alighieri ebbe modo di visitare questo paese in qualità di ambasciatore della Lega Guelfa in Toscana.
Il Trecento rappresenta il periodo d’oro della cittadina, quando erano addirittura settantadue le torri e case-torri che svettavano con la loro figura imponente ed elegante sulla cittadina donandole un profilo ineguagliabile.
Oggi restano soltanto sedici torri, divenute con il tempo proprio per questo ancora più preziose nella loro testimonianza di un momento storico e culturale irripetibile.
La torre in epoca medioevale costituiva il segno distintivo del potere, soprattutto perché il processo costruttivo non era affatto semplice ed economico. La più antica delle torri ancora svettanti è la torre Rognosa, 51 metri verso il cielo, mentre la più alta è la Torre del Podestà, detta anche Torre Grossa, di 54 metri.
Alla metà del Duecento le torri non vengono più costruite, mentre i palazzi risultano edificati secondo le tecniche più aggiornate, e i maggiori centri, come Firenze, Pisa, Lucca o Siena, definiscono alcuni caratteri architettonici peculiari per ogni città.
Ma questo non accade a San Gimignano, dove si viene con gli anni a costituire invece un’architettura eclettica, in cui si fondono gli stili delle diverse località con cui il comune entra in contatto, e che proprio per questa compenetrazione risulta oltremodo originale.
Testo di Milena Lombardo
Valdelsa: lungo le orme di Sigerico
Davanti alle torri di San Gimignano
San Donato: al misterioso castello
Anno di iscrizione: 2008
Sabbioneta, la città ideale di Vespasiano Gonzaga, un’oasi rinascimentale nella pianura mantovana, dove Gonzaga immaginò di trasformare quello che era un piccolo borgo agricolo in una “città ideale” e un ducato indipendente dalla sua Mantova. Razionalità, geometrie, rapporti tra gli spazi, perfino la forma a stella a 6 punte della fortificazione esterna: tutto fa della città di Vespasiano un modello di città rinascimentale.
Oggi, arrivando in bicicletta, lungo la ciclabile che unisce Mantova con Sabbioneta, entrambe Patrimonio dell’Umanità, la città appare all’orizzonte come un miraggio nella pianura. Le sue mura ordinate si confondono con i campi coltivati, mentre le cupole delle chiese raccontano la creatività e la fatica degli uomini che l’hanno sognata e costruita.
Il silenzio della pianura è rotto solo da qualche turista e dagli uccelli che fanno tappa nelle oasi dell’Oglio. Sabbioneta, nonostante sia Patrimonio dell’Umanità, non è meta del turismo di massa e questo aggiunge alla sua bellezza un pizzico di fascino solitario.
Entrando da Porta Vittoria, l’ingresso principale alla città, immaginiamo quante volte Vespasiano passò da questo varco.
Il Duca di Sabbioneta, nei primi anni della fondazione, riuscì a godersi ben poco la sua creatura.
Condottiero di fama, applicò il mestiere di uomo d’armi al servizio del Re di Spagna in Piemonte, nel Lazio, nelle Fiandre, accumulando successi e fortune, ma tornò sempre alla sua città che nel frattempo, anche grazie alle risorse guadagnare dal Duca in giro per l’Europa, continuava a fiorire.
Uno alla volta, gli edifici prendevano forma nella mente di alcuni tra i maggiori architetti dell’epoca e dello stesso Duca, che fu anche ingegnere e appassionato uomo di lettere. Oggi, passeggiando sull’acciottolato delle vie, una ad una queste forme perfette si presentano come una manifesto del Rinascimento sopravvissuto ai secoli.
Ecco allora il Palazzo del Giardino, il luogo scelto da Vespasiano per rilassarsi, leggere e studiare. Alla semplicità esterna fanno da contraltare le complesse e sofisticate decorazioni interne. Il Corridor grande, edificato tra il 1584 ed il 1586, è invece una classica galleria rinascimentale destinata ad accogliere le collezioni del duca.
Marmi antichi e trofei di caccia provenienti dalle raccolte imperiali di Praga, rimaste all’interno dell’edificio fino al 1773, furono trasferiti nel palazzo dell’Accademia di Mantova. Oggi i marmi restaurati sono esposti nella galleria di Palazzo Ducale e in Palazzo San Sebastiano, entrambi nel capoluogo.
Camminando più oltre visitiamo uno dei monumenti più celebri, il Teatro all’Antica, con le sue linee neoclassiche e la fama di essere il primo edificio teatrale italiano di epoca moderna. E poi ancora il Palazzo Ducale, la dimora del Duca. Il Palazzo, con le sue sale affrescate e i ritratti degli ascendenti sottolinea il legame con Mantova.
E’ facile immaginare il Duca camminare per questi corridoi, ormai spogliati di gran parte degli arredi, pensando alle sue missioni militari o a come far fiorire Sabbioneta, oppure alle sue vicissitudini familiari. Intorno alla figura di Vespasiano ruotano infatti leggende non proprio benevole.
Secondo la tradizione il Duca avrebbe avvelenato le prime due mogli, per il sospetto di tradimento durante le sue lunghe assenze dalla città.
Tracce di malumori familiari si trovano in alcune lettere indirizzate ad amici dove il condottiero lamentava che a fronte degli onori riconosciuti in paesi lontani a casa lo aspettavano “talora irriverenza, per Dio, e vergogna” tali da suscitare l’incontrollabile gelosia.
Secondo un’altra nefasta tradizione Vespasiano avrebbe colpito, uccidendolo, il suo unico figlio maschio, reo di non aver salutato il padre con la dovuta reverenza. Verità o leggenda? Almeno quest’ultimo evento sembrerebbe essere da escludere.
Nel 1988 gli archeologi rinvennero le spoglie di Vespasiano e del figlio, nella Chiesa della Beata Vergine Incoronata.
In entrambi gli scienziati trovarono dei piccoli fori nel cranio, probabilmente praticati dai chirurghi secondo una pratica usuale all’epoca per scongiurare le degenerazioni della sifilide, probabile causa della morte dell’unico erede del Duca.
Con la morte di Vespasiano, nel 1592, iniziò anche la lunga decadenza di Sabbioneta.
Troppo piccola e con vicini troppo ingombranti, la città fu a poco a poco depredata delle sue ricchezze e abbandonata a se stessa. Ignorata per secoli, la creatura di Vespasiano è oggi esattamente come era allora, durante lo splendore rinascimentale della sua breve vita, tra il 1556 e il 1592. Un sogno immobile nel tempo e nella pianura.
Testo di Carlo Rocca
Passeggiando tra i trulli di Alberobello
Anno di iscrizione: 1996
Alberobello, circa 11.000 abitanti, è ormai una meta di interesse mondiale che deve la sua notorietà ai trulli, le caratteristiche costruzioni del suo nucleo storico che ne fanno uno dei paesi più originali d’Italia. Un primo vincolo paesistico per queste costruzioni è del 1930, ma è nel 1996 che l’UNESCO ha dichiarato i trulli di Alberobello Patrimonio mondiale dell’Umanità per la loro eccezionale tipologia, la loro continuità abitativa, sopravvivenza di una cultura costruttiva di origine preistorica.
La singolarità costruttiva dei trulli, casedde nel dialetto locale, è data dalla loro struttura conica, eretta sopra un basamento cilindrico, ottenuta sovrapponendo a secco, ovvero senza l’impiego di malte, gli uni agli altri, vari corsi di chiancarelle, le caratteristiche pietre sottili ottenute dalla roccia calcarea della regione, terminanti con pinnacoli decorativi dalle più svariate forme. Spesso i trulli sono personalizzati da originali simboli dipinti a calce sulle brune pietre del cono.
Il territorio di Alberobello, l’antica Sylva Arboris Belli in ricordo dei grandi boschi di querce che un tempo lo ricoprivano, fu conteso a lungo, già nel Quattrocento, dai conti Acquaviva d’Aragona di Conversano ai feudi di Monopoli e Martina Franca. Finalmente all’inizio del XVII secolo un primo nucleo organizzato di abitazioni, completo di taverna, forno e mulino, sorse attorno a una residenza di caccia del feudatario Gian Girolamo II di Conversano (1600-1665), noto come il Guercio Di Puglia.
La precarietà delle costruzioni, edificate a secco e quindi facili a essere smantellate in caso di controllo, espediente ideato da Gian Girolamo per evitare le imposte, era dovuta al divieto regio di erigere costruzioni stabili in quest’area boschiva: ogni nuovo centro abitato doveva essere autorizzato dal re di Spagna, con il conseguente pagamento dei tributi da parte del feudatario.
Dallo sparuto numero di casedde si passò quindi a un piccolo borgo, i cui abitanti, però, continuarono a vivere nell’ombra, del tutto privi di diritti e tutele. Finalmente nel 1797 Re Ferdinando IV riconobbe l’esistenza di un’autonoma comunità di Alberobello, concedendole le rappresentanze istituzionali, con relativi oneri fiscali.
La zona monumentale – la parte antica della città comprendente i rioni Monti e Aia piccola – fu sottoposta a tutela già nell’Ottocento, quando si cominciò a intuire che quelle povere abitazioni costituivano un valore culturale ed economico, visto che la loro fama attirava sempre nuovi visitatori, i cui resoconti di viaggio esaltavano la magia di questo paese di fiaba.